Su Repubblica del 30 aprile Alessandro Baricco è intervenuto (qui e qui) sul tema della post-verità. Nella prima parte dell’articolo lo scrittore identifica il termine con quello di “bugia” o “menzogna”, introducendo forse un’eccessiva semplificazione (o un equivoco) su un tema più complesso. Riportiamo di seguito la seconda parte, che descrive cosa è cambiato negli ultimi anni nel rapporto tra la verità e il modo in cui essa circola, e chi ne ha (o aveva) il monopolio.
[…] Per quel che ne capisco io, il termine di post-verità registra, un po’ in ritardo, e sintetizza, in modo piuttosto efficace, alcune cose che abbiamo scoperto recentemente sul nostro rapporto con la verità. A costo di schematizzare provo a isolarne quattro.
La prima viene dalla riflessione filosofica, quindi non è facile da capire bene, ma in fondo è sufficiente annusarla. Riassumerei così: la verità non è una foto, un’istantanea, ma una sequenza di fotogrammi in cui qualsiasi fotogramma, preso di per sé, non è né vero né falso. È dunque una struttura piuttosto complessa, che reagisce malamente a qualsiasi tentativo di ridurla a una figura sintetica, facilmente trasmettibile. Per questo, da un po’, la verità ci sembra ancora più lontana, poco adatta al nostro tempo.
La seconda fa a pugni con la prima e qui iniziano i casini: è più vera una cosa inesatta, ma capace di circolare velocemente nel sistema sanguigno del mondo, di una cosa esatta che però si muove con lentezza. È più vera una definizione imprecisa ma comprensibile che una precisa ma difficile da capire. È più vera una notizia inesatta raccontata bene che una notizia esatta raccontata male. La prendiamo come la verità, e quella genera delle conseguenze molto reali: vita e morte delle persone, per dire. Per questo, da un po’, la verità tende a sembrarci un prodotto piuttosto pop, e sempre meno un segreto esoterico, privilegio di una setta di competenti.
La terza sembra facile, ma è piuttosto sottile e va capita bene. Si possono forse distinguere i fatti dallo storytelling — cioè il modo in cui li si presenta e rappresenta — ma è da stupidi credere che da una parte ci sia la verità e dall’altra lo storytelling. Quel che abbiamo capito è che tutto ciò che è reale — potremmo dire vero — è composto di fatti e narrazione, che sono inscindibili, non esistono praticamente gli uni senza l’altra. Per questo, da un po’, la verità ci sembra scivolare nelle mani di quelli che la sanno raccontare, non di quelli che la sanno e basta.
La quarta è l’ultima arrivata, regalino della rivoluzione digitale. Bene o male siamo stati abituati per secoli al fatto che una certa élite decidesse cos’era vero. Può piacere o meno, ma se non altro è una situazione piuttosto chiara, stabile, leggibile. La rivoluzione digitale (una cosa che non ha più di vent’anni) ha mescolato un po’ i ruoli, e ora di fatto una vera separazione tra chi dà le carte e chi le prende sta venendo a mancare. Tutti hanno il loro mazzo e giocano. Risultato: una sovrapproduzione di verità, quindi un’impennata dell’offerta, forse un calo della richiesta, sicuramente un crollo del valore. Per questo, da un po’, la verità sembra valere meno, una merce svalutata.
Se provate a immaginare questi quattro movimenti rotolare uno nell’altro, mettersi in azione contemporaneamente, capite che tutto si è fatto dannatamente difficile. Naturalmente la relazione con la verità non è mai stata una passeggiata, ma è indubbio che da un po’ siamo finiti comunque fuori dalla comfort zone in cui ci eravamo rifugiati, e ci tocca pattinare su un terreno molto scivoloso, fragile e soprattutto sconosciuto. Il fatto importante — da capire assolutamente — è che a patire sono soprattutto le élite, cioè quei gruppi di umani che per mestiere, ceto e vocazione hanno controllato per secoli il monopolio della verità. Paradossalmente, il nuovo statuto della verità rende piuttosto inessenziale quella skill particolare che era conoscere la verità: ignorarla almeno in parte sembra produrre risultati migliori. Sicuramente non è questa un’epoca per specialisti, per eruditi, per gente che sa. Non pensate a Pico de Paperis, pensate anche solo ai giornalisti. In teoria sarebbero quelli più prossimi alla verità, se si parla di notizie: ma da un po’ succede che quello che poi si sedimenta come notizia non viene da loro, o non viene sempre da loro, o non viene da loro quando è importante. Passando da Facebook o da Twitter, milioni di umani che non hanno mai fatto un corso di giornalismo ( e, incredibile, non sono nemmeno figli di giornalisti) fanno informazione, senza che sia il loro mestiere farlo, senza saperlo fare: ma la fanno, e questa circostanza produce notizie, e genera verità. Facendo una media, sono verità più false di quelle che per un secolo il giornalismo professionale ha prodotto quotidianamente? Difficile dirlo. Ma il solo fatto che sia difficile dirlo è una campana a morte per il giornalismo, per i competenti, per quelli che hanno studiato, per le élite del sapere. È effettivamente la fine di un’epoca.
Così, a un certo punto, proprio le élite hanno coniato l’espressione post-verità. Stavano cercando di dire che qualcosa era cambiato, e che il tavolo da gioco non era più quello di una volta, e che loro questa partita non erano mica tanto sicuri di saperla giocare: nel frattempo la stavano perdendo. Di per sé l’istinto era giusto: nominare i cambiamenti. Solo che se scegli come nome post- verità stai già scivolando nell’alibi: non stai riconoscendo che la verità ha assunto un nuovo statuto che non controlli più tanto bene, stai dicendo che la verità è morta nell’istante in cui tu non sei più stato in grado di controllarla: che presunzione, che cecità, che malafede, che menzogna, che bufala, che post-verità.
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