Il 18 gennaio 2015, in un campus universitario di Palo Alto, California, avviene uno stupro. Una ragazza viene ritrovata seminuda dietro un cassonetto della spazzatura. L’aggressore, Brock Allen Turner, viene trattenuto e denunciato da due testimoni. Si arriva al processo e lo scorso 2 giugno Turner è condannato a sei mesi di carcere e libertà vigilata. La vittima, prima della sentenza, ha letto in tribunale una lunga lettera scritta di suo pugno, in cui racconta cos’è stata la sua vita a partire da quella sera. Il Post ha tradotto interamente il testo e ne riportiamo qui uno stralcio, rimandando alla pagina (http://www.ilpost.it/2016/06/11/lettera-stupratore-stanford/) del sito per la lettura integrale. C’è anche un articolo (http://www.ilpost.it/2016/06/06/stupro-campus-stanford-university/) che ripercorre la vicenda giudiziaria. Avvertiamo che non si tratta di una lettura facile.
Vostro onore,
Se me lo permette, vorrei rivolgermi direttamente all’imputato per la maggior parte di questa dichiarazione.
Tu non mi conosci, ma sei stato dentro di me, ed è per questo che oggi siamo qui. Il 17 gennaio 2015 stavo passando una serata tranquilla a casa. Mio padre aveva preparato la cena ed ero a tavola con mia sorella più piccola, che era tornata per il fine settimana. Avevo un lavoro full-time ed era quasi ora di andare a letto. Il mio programma era rimanermene a casa da sola, guardare un po’ di tivù e leggere, mentre mia sorella sarebbe andata a una festa con i suoi amici. Poi, però, decisi che era l’unica serata che potevo passare con lei, non avevo niente di meglio da fare, e quindi perché no? C’era una festa a dieci minuti da casa mia, sarei andata, avrei ballato come una scema e messo in imbarazzo la mia sorellina. Mentre andavamo, le dissi scherzando che gli studenti avrebbero avuto l’apparecchio, e lei mi prese in giro perché mi ero messa un cardigan beige per andare a una festa di una confraternita e sembravo una bibliotecaria. Scherzai dicendo che sarei stata “la mamma”, perché sapevo che sarei stata la più vecchia. Alla festa mi misi a ballare facendo le facce stupide, abbassai la guardia e bevvi troppo velocemente, non tenendo conto del fatto che reggevo l’alcol molto meno rispetto a quando andavo al college.
Dopodiché, la prima cosa che mi ricordo è di essermi risvegliata sopra una barella in un corridoio, con del sangue secco e della bende sul dorso delle mani e sul gomito. Pensai che forse ero caduta e ora mi trovavo nell’ufficio del responsabile del campus. Ero calma e mi chiedevo dove fosse mia sorella. Un agente mi disse che ero stata violentata. Mantenni la calma, convinta che stesse parlando con la persona sbagliata: non conoscevo nessuno a quella festa. Quando finalmente mi lasciarono andare in bagno, mi abbassai i pantaloni che mi avevano dato in ospedale, feci per abbassarmi le mutande e non sentii niente. Ricordo ancora la sensazione che provai quando le mie mani toccarono la pelle, non trovando niente. Guardai in basso e vidi che non c’era niente. Quel sottile strato di tessuto, l’unica cosa tra la mia vagina e qualsiasi altra cosa, non c’era, e dentro me cadde il silenzio. Non ho ancora parole per descrivere quella sensazione. Per continuare a respirare, pensai che forse dei poliziotti le avessero tagliate con le forbici per usarle come prova. Poi, sentii degli aghi di pino che mi graffiavano dietro al collo, e iniziai a togliermene altri dai capelli. Pensai che forse gli aghi erano caduti da un albero, finendomi in testa. Il mio cervello stava parlando alla mia pancia per non farmi crollare. Perché quello che la mia pancia stava dicendo era aiutatemi, aiutatemi.
Mi trascinai di stanza in stanza avvolta da una coperta, lasciandomi dietro una scia di aghi di pino e formandone un mucchietto in ogni stanza in cui passavo. Mi chiesero di firmare documenti in cui c’era scritto «Vittima di stupro», e lì pensai che fosse davvero successo qualcosa. Mi avevano requisito i vestiti ed ero nuda, mentre le infermiere misuravano le diverse abrasioni sul mio corpo con un righello e le fotografavano. Con le due infermiere mi pettinai i capelli per togliermi gli aghi di pino, sei mani al lavoro per riempirne un sacchetto. Per calmarmi, mi dissero che era soltanto flora e fauna, flora e fauna. Mi inserirono diversi tamponi nella vagina e nell’ano, mi fecero delle iniezioni, mi diedero delle pastiglie, e c’era una macchina fotografica puntata in mezzo alle mie gambe divaricate. Inserirono dentro di me dei lunghi beccucci appuntiti e versarono nella mia vagina una specie di vernice blu e fredda per controllare se ci fossero abrasioni. Dopo qualche ora passata in questo modo mi lasciarono fare una doccia. Esaminai il mio corpo sotto il getto di acqua e decisi che non lo volevo più. Mi terrorizzava, non sapevo cosa ci fosse entrato, se era stato contaminato, chi l’avesse toccato. Volevo togliermi il mio corpo come se fosse una giacca e lasciarlo in ospedale insieme a tutto il resto.
Quella mattina, le uniche cose che mi dissero furono che ero stata trovata dietro a un cassonetto, che forse ero stata penetrata da uno sconosciuto e che avrei dovuto rifare il test per l’Hiv perché non sempre i risultati sono corretti da subito. Per il momento, però, sarei dovuta andare a casa e tornare alla mia vita di sempre. Immaginatevi cosa significhi dover tornare nel mondo avendo soltanto queste informazioni. Mi diedero dei grandi abbracci e io uscii dall’ospedale per andare verso il parcheggio, con addosso la nuova felpa e i pantaloni della tuta che mi avevano dato, visto che mi avevano fatto tenere solo la mia collana e le scarpe. Mi venne a prendere mia sorella. La sua faccia era bagnata dalle lacrime e deformata dall’angoscia. Istintivamente, ebbi subito il desiderio di farla smettere di soffrire. Le sorrisi e le dissi di guardarmi: ero lì e stavo bene, andava tutto bene, ero lì con lei; avevo lavato i capelli, in ospedale mi avevano dato uno shampoo stranissimo, doveva calmarsi, e guardarmi; guardare questi strani pantaloni della tuta e questa felpa, sembravo una professoressa di educazione fisica; ora dovevamo andare a casa e mangiare qualcosa. Non sapeva che sotto i pantaloni, sulla mia pelle, c’erano graffi e bende, che la mia vagina mi faceva male e aveva preso uno strano colore scuro per via di tutti gli esami, che non avevo le mutande e che mi sentivo troppo svuotata per continuare a parlare. Che avevo paura, e che ero distrutta.
Quel giorno tornammo a casa e mia sorella mi abbracciò per ore. Il mio ragazzo non sapeva cos’era successo, ma quel giorno mi chiamò e mi disse: «Ieri sera mi sono preoccupato molto, mi hai spaventato, sei riuscita a tornare a casa tranquilla?». Ero terrorizzata. In quel momento scoprii che quella notte l’avevo chiamato durante il mio blackout, che gli avevo lasciato un messaggio incomprensibile in segreteria, e che avevamo anche parlato al telefono, ma che biascicavo così tanto da averlo fatto spaventare, e che mi aveva detto più volte di andare a cercare mia sorella. Me lo chiese di nuovo: «Cosa è successo ieri sera? Sei riuscita a tornare a casa tranquilla?». Gli dissi di sì, poi riattaccai e cominciai a piangere.
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