Dire che oggi è la Giornata mondiale della pulizia delle mani può far sorridere. Eppure la sua importanza non deve essere sottovalutata, se si pensa che il semplice gesto di lavarsi le mani ha ridotto drasticamente i decessi dovuti a infezioni all’interno degli ospedali. Prima di inoltrarci nella storia di come questo sia avvenuto, è bene ricordare i dati di Unicef, che raccontano che ancora oggi «1.400 bambini sotto i cinque anni di età ogni giorno muoiono a causa di malattie diarroiche dovute alla mancanza di acqua pulita e di servizi igienici di base». Ancor prima che un problema di disponibilità, in molti Paesi si tratta di un fatto culturale: lavarsi le mani non è percepita come un’operazione utile o necessaria. Il sapone c’è, ma si usa per fare altro: «Il sapone è presente nel 95 per cento delle famiglie in Uganda, nel 97 per cento in Kenya, ma è usato per lavare panni o stoviglie, o fare il bagno o la doccia, non per il lavaggio regolare delle mani durante la giornata».
La rivoluzione culturale in Europa avviene alla fine dell’800, quando la scienza conferma l’intuizione di un medico ungherese, che già quarant’anni prima aveva teorizzato l’importanza dell’igiene delle mani per limitare il passaggio di batteri e virus attraverso il contatto. Il medico in questione è Ignaz Philipp Semmelweis (Budapest, 1818 – Vienna 1865). A metà del XIX secolo, egli lavorava nel reparto ostetricia di un ospedale di Vienna, e osservava che nel suo padiglione, dove lavoravano principalmente medici o studenti, moltissime donne morivano dopo il parto di sepsi o febbre puerperale (circa l’11 per cento, ma in altri reparti si arrivava anche al 33). In un altro padiglione, dove ad aiutare le donne nel parto erano solo ostetriche, i decessi erano molti meno: circa l’1 per cento. Una differenza impressionante, ma senza spiegazione.
Un giorno, Semmelweis notò durante un’autopsia che il cadavere, che in vita era stato un suo collega, presentava lesioni simili a quelli delle puerpere decedute. Ricordò che il collega deceduto aveva eseguito proprio pochi giorni prima un’autopsia su una madre morta dopo il parto, ferendosi durante le operazioni. Ecco quindi l’intuizione: il contagio avveniva per contatto. Va detto che a quei tempi non era in uso l’abitudine di lavarsi le mani tra un’operazione e l’altra, così medici e studenti passavano con disinvoltura dall’esecuzione di un’autopsia a occuparsi di far nascere bambini. Semmelweis fece quindi un esperimento: dispose che «colleghi e studenti si disinfettassero le mani con cloruro di calcio prima di entrare in sala parto. Il calo delle morti per sepsi fu un vero crollo: era il 1847 e in un anno anche il padiglione dei medici ostetrici si attestò sull’1 per cento di decessi». Se si pensa che sia bastato questo a innescare un circolo virtuoso di igiene delle mani negli ospedali ci si sbaglia di grosso.
Offesi dall’inaccettabile teoria, i colleghi di Semmelweis si coalizzarono contro di lui e riuscirono a farlo cacciare due volte dalla struttura, finché il medico ungherese non fu internato in manicomio, dove morì. La classe dei medici, orgogliosa del proprio prestigio e certa della propria infallibilità, si rifiutò di abbassarsi a dare retta a una teoria priva di qualunque dimostrazione scientifica (non c’erano ancora gli strumenti tecnici necessari). I decessi, quindi, ripresero e continuarono incessanti fino alla fine del secolo quando, finalmente, grazie anche agli studi di Louis Pasteur sulla contaminazione batterica, l’igiene delle mani divenne uno dei capisaldi del lavoro in ospedale. Giusto quindi dare alla pulizia delle mani il peso che merita, si tratta di un piccolo gesto che può mettere al riparo da grandi minacce.