Qualche giorno fa, a Torino, si è svelato in tutta la sua concretezza il “lato oscuro” della tecnologia che abbatte gli intermediari, e delle start-up che con un’app si ritagliano una fetta di mercato e la prospettiva di una rapida crescita. Ci riferiamo allo sciopero dei fattorini di Foodora (o rider, come preferisce chiamarli l’azienda tedesca), che venerdì scorso hanno protestato per il cambio di retribuzione stabilito unilateralmente dall’azienda. I ragazzi impegnati nelle consegne a domicilio, in bicicletta, di pasti da vari ristoranti della città (il servizio è attivo, oltre che a Torino, anche a Milano), hanno visto sparire la retribuzione oraria (5,60 euro lordi per ogni ora passata a pedalare), in favore di un pagamento basato esclusivamente sulle consegne effettuate. Indipendentemente dalla distanza percorsa, ora ricevono solo la parte variabile del compenso, 2,70 euro a consegna. L’azienda si è detta disposta al dialogo, dunque nei prossimi giorni la situazione potrebbe cambiare a favore dei lavoratori, staremo a vedere.
Intanto però si possono fare alcune considerazioni in merito alla vicenda. La prima è che protestare e manifestare serve ancora. Il ruolo della “piazza” come luogo della politica è in discussione da alcuni anni. C’è chi la celebra come l’avamposto grazie al quale si sono raggiunti risultati storici, chi ormai la considera uno strumento inflazionato e poco efficace. Nella seconda categoria figurano anche molti giovani, come ha argomentato all’ultimo Festival internazionale di giornalismo a Perugia Enrico Mentana. Il giornalista ha dichiarato di vedere, tra i giovani, una «supina rassegnazione. Si vive nel galleggiamento del presente, tra lo smartphone e lo spritz». Un pensiero confermato di lì a poco dall’intervento di una ragazza di 23 anni dal pubblico, che denunciava genericamente che «il sistema fa schifo», e che «le manifestazioni non servono a niente».
Non si può generalizzare ovviamente, ma è probabilmente è vero che, tra chi parte rassegnato e chi non ha tempo di alzare lo sguardo per analizzare la propria condizione perché impegnato in mille lavoretti per far quadrare i conti, lo strumento della manifestazione di piazza (un tempo si sarebbe detto lotta politica) è ormai utilizzato soprattutto per difendere principi etici (vedi “Family Day”) o per cercare di preservare posti di lavoro, quando grandi aziende paventano piani di licenziamento. Come spiega l’economista Marta Fana su Internazionale: «Da Piacenza a Torino, in un’Italia che ha subìto inerme l’intero processo di liberalizzazione del mercato del lavoro, dal pacchetto Treu ai voucher buoni per qualsiasi uso, le proteste dei fattorini ci restituiscono la percezione che esiste un terreno di conflitto su cui agire per migliorare le condizioni della maggioranza dei lavoratori e delle lavoratrici. Una maggioranza che non è invisibile, ma bussa ogni sera alle nostre porte».
La vicenda Foodora mostra anche un aspetto raramente sottolineato dello sviluppo tecnologico, che sta portando alla nascita di nuovi servizi basati su app scaricabili su smartphone lanciati da start-up dalla struttura societaria molto leggera. L’idea che sta dietro a questo tipo di servizi è creare opportunità che avvantaggino domanda e offerta: chi vende prodotti può allargare il proprio mercato senza costi aggiuntivi, mentre il consumatore si ritrova nella possibilità di accedere a beni e servizi a prezzi competitivi e senza muoversi da casa.
Il contrappeso di questa creazione di valore è la svalutazione del lavoro di chi mette fisicamente in contatto domanda e offerta (i fattorini, nella fattispecie). Ciò che rende più preoccupante il caso è il contesto in cui si è verificato, cioè quello incorniciato dall’ultimo rapporto Caritas sulla povertà in Italia. Secondo i dati elaborati, la distribuzione della povertà per fasce d’età si è ribaltata nel giro di otto anni, dal 2007 al 2015: allora erano gli anziani a essere più in difficoltà, oggi sono i giovani. «Tra i 4,6 milioni di poveri assoluti il 10,2 per cento sono nella fascia d’età tra i 18 e i 34 anni», riporta Avvenire.
Per chiudere, Linda Laura Sabbadini, su La Stampa in edicola ieri, aggiunge che l’inizio del percorso lavorativo ha un effetto a lungo termine sul modo in cui evolverà la condizione futura della persona: «Ricerche condotte anche a livello internazionale mostrano come la storia lavorativa dei primi anni è fortemente predittiva per la situazione lavorativa futura. L’esclusione dei giovani dal mercato del lavoro prolungata o l’inserimento in lavori marginali e a basso salario, ha un impatto negativo sulle future prospettive di lavoro sia in termini quantitativi che qualitativi».
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