Nel particolare sotto genere giornalistico che potremmo battezzare “il lavoro c’è, ma il lavoratore non si vede”, nei giorni scorsi è andato in scena un nuovo episodio. Ormai si tratta di un filone con caratteristiche piuttosto definite, e dinamiche che tendono a ripetersi sempre uguali nel tempo. Stavolta il protagonista della vicenda è un imprenditore, titolare di cinque panetterie a Milano, in cerca di personale da Ferragosto senza successo. Il colpevole è sempre lo stesso: il giovane disoccupato svogliato. In un periodo storico in cui la disoccupazione (soprattutto giovanile) è un grave problema, creare una narrazione per cui i giovani non hanno l’umiltà di accettare un lavoro che non sia quello dei loro sogni, e che quindi preferiscono continuare a essere disoccupati (implicitamente sulle spalle della famiglia) ha buon gioco nel trovare spazio sui giornali.
Ciò che manca sempre in questo tipo di articoli sono i requisiti minimi che dovrebbero caratterizzare un buon pezzo giornalistico, su tutti la verifica delle fonti. Come fa notare anche Matteo Pascoletti su ValigiaBlu (http://www.valigiablu.it/lavoro-giovani-disoccupazione/), una caratteristica tipica di questo tipo di racconti è che si fermano sempre al punto di vista e alle informazioni forniti dal datore di lavoro. Lo schema si ripete anche in questo caso. Prendiamo l’esempio di Linkiesta, tra le prime testate a occuparsene: «“I curriculum arrivano – spiega Pattini – Ma i problemi iniziano al colloquio. Cerchiamo una cuoca che affianchi la nostra, per darle una mano, ma nessuna vuole farlo. Avevamo preso un barista, ma ha rifiutato un contratto perché altrimenti perdeva i 700 euro di disoccupazione. L’altro giorno è venuta una cuoca e ce l’ha detto chiaramente: io comincio da voi, ma aspetto la risposta alla domanda di disoccupazione. Se mi danno l’assegno, non vengo. E non è venuta. Un’altra ha rifiutato il lavoro perché mi ha detto che da piazzale Loreto a qua ci metteva troppo tempo ad arrivare”. Cinque fermate di metropolitana. Dieci minuti, attese comprese».
Ovvia l’indignazione nel leggere di episodi del genere. Peccato che nell’articolo non si leggano le versioni delle persone di cui parla Pattini. Né compaiono altri elementi di contesto che potrebbero aiutare a ricostruire un quadro più completo, e magari diverso da come lo si vuole fare apparire. In questi casi gli articoli, per quanto imprecisi o incompleti, diventano dei grandi annunci pubblicitari per gli imprenditori coinvolti. Improvvisamente infatti Pattini ha iniziato a ricevere curriculum a ripetizione (circa 1.200 in due giorni, spiega un successivo articolo di Repubblica), ed è quindi riuscito a coprire le posizioni per le quali cercava delle persone. Una delle neo assunte ha spiegato anche di avere già contattato l’azienda, ma di non avere più sentito nessuno per settimane: «Valentina, 34 anni e tre figli, da ieri lavora come banconista nella panetteria Pattini di corso Garibaldi. “Avevo mandato il curriculum a inizio ottobre senza ricevere risposta. Mercoledì, leggendo la storia sui giornali, ho chiamato per chiedere spiegazioni. Sono stata convocata per il colloquio giovedì e mi hanno assunta”». Non arriviamo a pensare che tutto l’episodio sia stato architettato per ampliare le possibilità di trovare personale qualificato, o per fare pubblicità all’attività commerciale. La buona fede dei protagonisti non è in discussione: a lasciarci perplesso è certo giornalismo che sembra non aspettare altro che un episodio, uno spunto anche di poco conto sul quale costruire narrazioni che fomentano l’indignazione.
Si mette in atto, come scrive Pascoletti, un processo di «trasformazione di problemi collettivi (diritto al lavoro) in problemi individuali (immaturità psicologica di chi non lavora stabilmente). In questo schema, infatti, se manifesto perché non ho lavoro non sto esercitando un diritto: sto disturbando la quiete pubblica a causa della mia immaturità psicologica. Si respinge la possibilità di individuare un problema scaricandolo sulle spalle di chi per primo ne subisce le conseguenze negative. Il conflitto sociale diventa problema psichico del singolo, l’alienazione prodotta dal conflitto diventa una minaccia per l’ambiente, che nulla ha da spartire con essa». Con una serie di sottintesi, sembra si voglia dare la colpa ai giovani, magari istruiti, che non vogliono accettare di fare lavori pratici, artigianali, fisici. Si toglie dunque dignità al lavoro intellettuale, che implicitamente non costa fatica ed è cosa per oziosi, stabilendo così una gerarchia tra chi è disposto a “sporcarsi le mani” e chi no.
In un Paese in cui la percentuale di laureati è drammaticamente bassa (siamo al 18 per cento, la media dei Paesi Ocse è 36 per cento), soprattutto al Sud, si alimenta uno schema secondo cui è meglio lasciar perdere gli studi, perché contribuiscono a formare persone che snobbano il lavoro. Il che, se pensiamo alle conseguenze che può avere per il futuro del Paese, è un’operazione del tutto irresponsabile.