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Da ieri 170 detenuti e 40 operatori hanno perso il lavoro. Dieci cooperative, che operavano in nove carceri italiane, hanno visto venir meno la convenzione col Ministero per la gestione delle mense, dovendo così chiudere il servizio. La gestione delle stesse torna così alle amministrazioni penitenziarie, che si sono impegnate a riassumere i carcerati, ma molte cose cambieranno, in peggio. Innanzitutto, la retribuzione dei lavoratori scenderà a circa la metà rispetto alla situazione precedente. Come spiega il sociologo Luigi Manconi a ilSussidiario.net, sarà applicata la modalità delle mercedi, che prevede di pagare ai detenuti «i due terzi del contratto di lavoro dell’anno in corso, peccato che l’anno in corso per i detenuti è il 1993, cioè quando ancora c’erano le lire, da allora il contratto non è mai stato aggiornato».

Oltre al dimezzamento dello stipendio, verranno meno tutta una serie di obblighi che le cooperative erano tenute a garantire, ossia la formazione dei lavoratori, l’accompagnamento, la qualità del lavoro. Le mense gestite attraverso le cooperative hanno portato a un miglioramento della qualità del servizio all’interno degli istituti carcerari e hanno contribuito a formare persone che, una volta scontata la pena, riacquisteranno la libertà con uno strumento in più per non ricadere nella delinquenza. Le cooperative non svolgevano solo il servizio mensa, ma erano anche vere e proprie agenzie di catering, che offrivano servizi a clienti esterni, con tutto ciò che ne consegue in termini di professionalità richiesta. Insomma, era un lavoro vero, non semplicemente un modo per rendersi utili e far passare più velocemente giornate altrimenti vuote.

Era anche un modo in cui il detenuto poteva, senza uscire dal carcere, relazionarsi in qualche modo con la realtà extracarceraria, sentirsi parte di quel mondo, prepararsi ad affrontarlo. Una situazione molto diversa dallo svolgere una mansione in carcere per il carcere. Lo spiega anche il magistrato Guido Brambilla: «Che una cooperativa di lavoro sia presente all’interno di un carcere significa che una realtà sociale, un pezzo della società civile, entri dentro le mura della prigione e possa esser “vista”, innanzitutto, da chi sta espiando la pena, dentro una “vicinanza”. Un contesto di persone positive, produttive, valorizzative, che costituisce, prima ancora che un’opportunità di lavoro, un modello di riferimento “altro” rispetto a quello precedentemente frequentato, abitato, dall’autore del reato».

È utile ricordare che il tasso di recidiva degli ex detenuti quando lasciano il carcere tende ad abbassarsi notevolmente quando questi hanno la possibilità di imparare ed esercitare un mestiere durante la detenzione. Quest’ultima dovrebbe servire a restituire alla società una persona riabilitata, di nuovo (o per la prima volta) in grado di relazionarsi alla vita senza scegliere la delinquenza. Brambilla aggiunge a questa considerazione ormai comprovata anche quello che definisce un “effetto domino” sul contesto sociale in cui l’ex detenuto torna a vivere una volta uscito dal carcere: «Un uomo che ha recuperato la sua dignità, che può spendersi in modo nuovo nella società, con delle competenze, con un lavoro onesto e competitivo sul mercato, è a sua volta esempio per altri: per i figli, i parenti, gli amici, in un contesto sociale magari già a suo tempo caratterizzato da devianza. Abbattimento della recidiva, quindi, ma anche funzione di prevenzione generale, non determinata più dal timore della deterrenza, ma dall’influsso osmotico di un modello concreto di recupero sociale autentico e conveniente per tutti».

C’è addirittura chi paventa, come Luigi Manconi, che dietro alla decisione di tornare alla gestione carceraria delle mense ci possa essere una velata volontà di costringere i soggetti più deboli a nuove forme di lavori forzati: «Quelle che papa Francesco chiama “le nuove forme di schiavitù”: lo sfruttamento delle fasce più vulnerabili che, tanto più se hanno commesso errori, è bene che paghino e tacciano». Si rinuncia a una esperienza vincente per risparmiare qualche soldo. Riprendendo il discorso di insediamento del presidente del Consiglio Matteo Renzi, che sottolineava l’importanza di investire nell’istruzione e nelle scuole per dare un futuro al Paese, riteniamo altrettanto importante dare la giusta importanza a quegli istituti che danno la possibilità a chi ha fallito di provare a ripartire. Pensare al carcere come a una scuola potrebbe essere la via per non cadere in logiche ragionieristiche, che porteranno qualche risparmio oggi in cambio di grandi problemi domani.