Una delle novità portate dalla diffusione dei social network, nel bene e nel male, sono le cosiddette challenge. Si tratta appunto di “sfide”, che impegnano i partecipanti a fare (o non fare) una certa cosa, condividendo l’esperienza sul proprio profilo e contribuendo così alla diffusione “virale” del gioco.

Spesso è difficile ricostruire la genealogia di una challenge. Talvolta nasce da campagne pubblicitarie, da iniziative di associazioni e gruppi di vario tipo, da eventi particolarmente rilevanti o da comunità online abbastanza consistenti da avviare l’onda di partecipazione.

I termini delle challenge sono estremamente variabili. Si va dalla goliardia fine a se stessa, magari con implicazioni di sicurezza per l’incolumità di chi vi partecipa, a iniziative di sensibilizzazione, a cose più o meno innocue volte più che altro a passare il tempo. I media italiani sono generalmente molto interessati a quelle “ad alto rischio”, tendendo a costruire una narrazione secondo cui le challenge sono una cosa necessariamente stupida e pericolosa. Talvolta si arriva a dare spazio a challenge che non sono mai esistite, contribuendo involontariamente (ma non meno colpevolmente) al fatto che poi magari nasca dell’interesse per sfide effettivamente stupide e pericolose, che nessuno si sarebbe mai sognato di intraprendere.

Ma, come si diceva, le challenge possono anche servire a sensibilizzare verso problemi che richiedono azioni concrete, in particolare su temi ambientali. L’Indipendente ne ha per esempio individuate tre. #NoNewClothes è stata avviata da un’associazione che promuove la sostenibilità del settore della moda, e invita i partecipanti a non comprare nuovi vestiti per tre mesi (giugno, luglio e agosto). A questa si collega poi #SecondHandSeptember, promossa da Oxfam, che invita a comprare solo vestiti di seconda mano nel mese di settembre.

Un’altra campagna è #PlasticFreeJuly, lanciata dall’associazione australiana Plastic Free Foundation, che invita a non usare prodotti di plastica monouso (e di plastica in generale) per tutto il mese di luglio.

Sono solo tre esempi, ma l’elenco potrebbe continuare (per esempio qui si parla di #TrashTag, che invita a ripulire la propria area dai rifiuti, e di #StopSucking, contro l’uso delle cannucce di plastica). In tutte queste challenge, il punto è instillare nuove abitudini, invitare gli utenti a condividere le proprie esperienze, i propri consigli, sentirsi parte di una comunità dalle pratiche virtuose per l’ambiente.

Ampliando un po’ il discorso, si potrebbe parlare anche dell’app cinese Ant Forest che, in forma di gioco, invita ad adottare comportamenti sostenibili per l’ambiente, impegnando l’azienda che l’ha prodotta a piantare alberi per compensare le emissioni di gas serra. In pochi anni ha portato a piantare oltre 120 milioni di alberi, coprendo oltre 100 mila ettari.

Dunque, per tornare al titolo di questo articolo, le challenge hanno fatto (e continueranno a fare) anche cose buone, quindi forse è il caso di analizzarle in maniera più equilibrata, invece di giocare su paure e indignazione, sempre così facili da sollevare. Va detto ovviamente che, quando si parla di ambiente, i problemi si risolvono solo con politiche coordinate e decise da parte di governi, istituzioni internazionali e aziende private. Però avere cittadini informati e sensibilizzati è il primo passo per chiedere politiche ambientali coraggiose ed efficaci.

(Foto di Jan Baborák su Unsplash)

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