La grande ondata di coronavirus che ha colpito la zona di Bergamo tra marzo e aprile ha lasciato ferite profonde. Non ci riferiamo solo alle tante persone che sono morte a causa della malattia o per le relative complicanze, ma anche a chi ce l’ha fatta, ma oggi convive con le conseguenze di quell’esperienza. L’ospedale di Bergamo sta richiamando tutte queste persone, oggi negative al virus, per svolgere una serie approfondita di test. I dati raccolti saranno elaborati e serviranno alla realizzazione di uno studio utile a capire meglio le caratteristiche del virus e della sindrome che in alcuni casi comporta (studi simili si stanno facendo anche in altri paesi, per esempio in Germania).  Mentre le rilevazioni sono ancora in corso, il Washington Post è andato a parlare con pazienti e medici coinvolti nella vicenda, e il quadro che se ne trae è piuttosto impressionante. Come ha spiegato un’epidemiologa dell’ospedale, Serena Venturelli, «la metà delle persone a cui chiediamo se si sentono guarite risponde di no».

Una grande varietà di disturbi

Il COVID-19 è una sindrome che può avere ramificazioni che coinvolgono tutto l’organismo, ma che lascia segni di gravità molto diversa tra un paziente e l’altro; talvolta non ne lascia quasi per niente. Tra i primi 750 pazienti monitorati, il 30 per cento presenta cicatrici ai polmoni e problemi respiratori. Un altro 30 per cento si porta dietro disturbi relativi a infiammazioni e coaguli, responsabili di problemi cardiaci e ostruzioni arteriose. Alcuni rischiano il blocco di funzionamento di alcuni organi. Secondo otto medici coinvolti nello studio, molti pazienti stanno facendo i conti con un ampio ventaglio di altri disturbi, che nessuno sa dire loro se e quando passeranno: dolori alle gambe, formicolii alle articolazioni, perdita di capelli, depressione, affaticamento cronico. Alcuni pazienti si presentavano già con disturbi pregressi, ma i dottori assicurano che nel caso dei sopravvissuti al virus non si tratta semplicemente di una nuova versione di vecchi problemi. «È qualcosa di nuovo», ha detto Marco Rizzi, primario del reparto di malattie infettive. L’articolo del Washington Post contiene alcune testimonianze dirette che rendono bene la condizione di difficoltà che stanno vivendo molte delle persone che si sono ammalate in quei giorni. Giuseppe Vavassori, 65 anni, ha avuto delle lesioni cerebrali che hanno comportato una forma di amnesia a breve termine. Ora la sua vita è costellata da montagne di Post-it e foglietti vari, l’unico modo per essere indipendente e portare avanti la propria attività. Guido Padoa, 61 anni, si è ripreso abbastanza bene da poter andare in vacanza quest’estate. Dopo la malattia però dorme quattro ore in più per notte e a volte si addormenta all’improvviso durante il giorno, con la testa che si abbatte sulla tastiera del computer. Difficile stabilire cosa determina un buon recupero dalla malattia o il suo trascinarsi. Venturelli ha parlato di un ottantenne arrivato quasi del tutto ripreso per sottoporsi ai test. Suo figlio, anch’egli reduce dal COVID-19, non ha avuto un recupero altrettanto buono: il coronavirus ha trasformato il padre nel badante del figlio.

Uno scenario nuovo

Rispetto a quei giorni lo scenario di oggi è molto diverso. Allora l’attesa media per l’arrivo di un’ambulanza era di sei ore, e di 16 ore quella per l’accesso al pronto soccorso. Condizioni che hanno determinato una situazione drammatica. 440 persone sono morte in ospedale, a cui ne vanno aggiunte 220 morte dopo essere state dimesse. A un certo punto, a marzo, a Bergamo c’erano 92 persone in terapia intensiva: gli ultimi dati disponibili (10 settembre) parlano di 163 ricoverati in tutta Italia. Alcuni medici dell’ospedale di Bergamo trovano che i risultati dello studio mostrino anche elementi incoraggianti, considerando il contesto. Nonostante infatti le cicatrici che molti pazienti riportano ai polmoni siano permanenti, la loro capacità respiratoria sembra infatti lentamente migliorare. Inoltre nessuna delle persone richiamate aveva febbre. Certo, anche per coloro che si sono ripresi a livello fisico resta il trauma psicologico di aver vissuto un’esperienza simile. Vale per i pazienti come per il personale medico che in quei giorni si è esposto alla malattia. Molti operatori sanitari si sono ammalati, qualcuno non è sopravvissuto, molti oggi sono tornati a lavorare in quegli stessi reparti.

(Foto di Mufid Majnun su Unsplash)