Per anni le scienze neurologiche hanno sostenuto che alcune differenze di comportamento tra maschi e femmine fossero collegate alle differenze anatomiche che si riscontrano nel cervello. Oggi la ricerca è concorde nel dire che gli studi che hanno portato a trarre tali conclusioni soffrissero di pregiudizi di genere. Il racconto Valeria Minaldi, psicologa e psicoterapeuta, sul Tascabile.

Quando ero piccola, a mio cugino venne regalata una macchina giocattolo elettrica. Vedendola sfrecciare, mi resi conto di volerla anch’io. Ero estremamente soddisfatta delle mie bambole e del set per fare le pizze, ma avrei anche voluto giocare con quella piccolissima Ferrari. Nonostante ciò, mi vergognavo a chiederla. Pensavo che non fosse per femmine e che fosse strano desiderarla. Non ricordo i miei genitori o qualche altro adulto dirmi che quella macchina non faceva per me. Ma lo sentivo come un fatto: quello era un gioco da maschio.

Più avanti, durante la mia formazione accademica mi sono trovata diverse volte a studiare testi universitari che sostenevano che in effetti una femmina ha tendenze, desideri, aspirazioni e comportamenti peculiari rispetto al maschio, suo coospecifico. E questo perché esisterebbero due modelli cerebrali umani anatomicamente e funzionalmente definiti determinati dal sesso biologico (inteso in maniera semplicistica come il sesso genotipico XX o XY): uno maschile e uno femminile. Secondo questa visione, le due categorie presenterebbero, oltre le funzionalità basiche che caratterizzano la specie, differenze predeterminate e immodificabili comunemente considerate come connotazioni di genere e strettamente legate ai concetti di mascolinità e femminilità.

Anche fuori dall’accademia, chiunque ha sentito almeno una volta di risultati di esperimenti che sostengono, per esempio, che le donne non sappiano orientarsi nello spazio e che gli uomini non vantino capacità di multitasking. Ma è proprio vero che i suddetti studi dimostrino l’esistenza di queste due categorie così puntuali? Gli esperimenti forniscono davvero evidenze indiscutibili in questo senso? E possono considerarsi scevri da interpretazioni a loro volta frutto di stereotipi di genere?

Credo che per approcciarsi alla ricerca neuroscientifica sia necessario considerare il rischio di incorrere in due grandi errori, soprattutto quando si parla della sua divulgazione. Il primo è dovuto alla distorsione, anche involontaria, dei risultati scientifici: nel riportare le evidenze riscontrate, legate a processi non sempre intuitivi, è infatti molto facile ricorrere alla rielaborazione semplicistica dei dati ottenuti, che a sua volta può sfociare nel loro travisamento. Ciò è dovuto sia alla difficoltà evidente di tradurre dati tecnici in concetti, sia alla tendenza a confondere le riflessioni e ipotesi conclusive degli studi con delle prove definitive. Il secondo frequente errore è considerare la scienza (e tutto ciò che da essa deriva) come esatta e oggettiva in ogni sua manifestazione e di conseguenza inconfutabile. Se un esperimento determina un certo risultato, questo potrà essere scambiato per un fatto. Ma la scienza non funziona così. Al contrario, anzi, la scienza avanza per tentativi, per prove ed errori, per discussioni tramite le quali si cerca di arrivare a un consenso. E inevitabilmente chi fa ricerca può essere soggetto, come tutti gli esseri umani, a bias cognitivi, cioè errori sistematici di valutazione nell’interpretazione delle informazioni in possesso (come ad esempio il bias di conferma).

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(Foto di meo su Pexels)

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