I centri anti violenza dedicati alle donne sono in difficoltà. La maggior parte di essi sopravvive grazie alla capacità di trovare finanziamenti da privati o tramite bandi, mentre i fondi promessi e stanziati dallo Stato sono spesso bloccati da questioni burocratiche. La denuncia arriva da molti di questi centri e dalle associazioni che li raggruppano. Tra queste Chayn Italia, che ha lanciato la campagna “Cambiamo il finale”, per dare visibilità e aiuto ai centri che stanno per chiudere a causa dell’assenza di fondi. «L’interruzione brusca di qualsiasi percorso di cura può avere effetti negativi altissimi – scrive l’associazione – immaginiamo cosa possa significare dover ricominciare da capo, con persone e strutture diverse, un percorso così delicato e traumatico. Sempre che poi le strutture rimanenti possano assorbire la domanda, cosa che puntualmente non accade».

Titti Carrano, presidente dell’Associazione nazionale dei centri antiviolenza, fa notare come il sistema italiano dei centri anti violenza abbia bisogno di svilupparsi ulteriormente, mentre invece la sua capillarità sta conoscendo una preoccupante contrazione: «Perché dopo avere firmato la convenzione di Istanbul sulla violenza di genere, varato una legge con l’intento di tutelare le donne che doveva essere una delle bandiere di questa legislatura e previsto con un decreto del 2013 la ripartizione delle risorse da destinare, lo Stato lascia morire i centri anti violenza? E perché i 16,5 milioni di euro distribuiti alle Regioni per i centri sono stati corrisposti solo in piccola percentuale, mentre i 18 milioni stanziati dalla legge 119 del 2013 per il 2015-2016 non stati ancora erogati?».

C’è un problema (e talvolta un’assenza) di dialogo con le istituzioni che mette l’esistenza dei centri anti violenza continuamente in discussione, anche perché molte leggi, dopo l’approvazione e l’entrata in vigore (e conseguenti guadagni in termini d’immagine da parte di chi le firma) non trovano concreta applicazione: «Solo sei regioni hanno organizzato confronti con noi. Il punto è che le leggi ci sono, ma è come se non ci fossero». Mentre si aspetta che qualcuno metta mano ai pasticci burocratici che bloccano i finanziamenti, i centri sono costretti a chiudere.

In assenza di interventi strutturali per affrontare il fenomeno, il Ministero dell’interno si fregia di supportare un’iniziativa avviata nei giorni scorsi assieme alla Polizia, la campagna “Questo non è amore”. Il messaggio diffuso è che «Se ti offende, se ti zittisce, se ti controlla, se ti fa del male fisico, se minaccia la tua libertà, anche economica… Questo non è amore». L’iniziativa si articola in più fasi, la prima delle quali prevede una sperimentazione di tre mesi, in cui una postazione mobile della Polizia sarà presente per tre sabati al mese in alcuni capoluoghi di provincia (Sondrio, Brescia, Bologna, Arezzo, Macerata, Roma, L’Aquila, Pescara, Matera, Campobasso, Cosenza, Palermo, Siracusa e Sassari). La postazione ospiterà «un gruppo di esperti costituito da un medico/psicologo della Polizia di Stato, un operatore della Squadra mobile-sezione specializzata, un operatore della Divisione anticrimine e/o dell’Ufficio denunce e un rappresentante della rete antiviolenza locale». L’obiettivo, ha spiegato il capo della Polizia Franco Gabrielli, è raccogliere informazioni e competenze per rendere gli uffici di polizia più adeguati a trattare casi di violenza di genere, offrendo un servizio non solo giudiziario, ma anche psicologico.

Per quanto riguarda i dati relativi alla violenza sulle donne, secondo l’ultima indagine Istat essa è «un fenomeno ampio e diffuso», seppure in calo. Una tendenza confermata dai dati citati dal Sole 24 Ore, secondo cui «Nel primo semestre 2016 rispetto allo stesso periodo del 2015 i reati di violenza sulle donne sono in calo: -22,9 per cento i femminicidi, -23,3 per cento le violenze, -22,8 per cento i maltrattamenti».

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