Nonostante le cose siano migliorate, spesso i farmaci sono tuttora sviluppati principalmente secondo le caratteristiche del corpo maschile. Allo stesso modo, le donne sono spesso escluse dai ruoli apicali in ambito scientifico. Ne parla il libro La salute è un diritto di genere, di Alessandra Vescio, di cui Valigia Blu pubblica un estratto.
È stato stimato che, nei paesi ad alto reddito, tra il 27 e il 99 per cento di donne abbia assunto almeno un farmaco durante la gravidanza. Nonostante ciò, vi è ancora poca chiarezza sulla sicurezza dei medicinali in questa circostanza. Nel Rapporto nazionale sull’uso dei farmaci in gravidanza, l’Agenzia Italiana del Farmaco ha spiegato che, nonostante l’opinione più diffusa anche tra professionisti sanitari sia che è pericoloso per una donna incinta assumere medicinali, solo alcuni sarebbero effettivamente in grado di creare problemi al feto e si tratta solitamente di medicinali per malattie croniche o di lunga durata. Al tempo stesso, ci sono moltissime variabili che entrano in gioco durante la gravidanza e l’assunzione o meno di medicine può comportare un rischio a seconda della situazione personale. L’AIFA consiglia dunque una valutazione dei rischi e dei benefici di ogni singolo caso, ma sottolinea come ciò non sia poi così semplice, dal momento che per motivi etici le donne in gravidanza tendono a essere escluse dai trial clinici dei farmaci che a loro poi vengono comunque somministrati: «Diversi trattamenti farmacologici comunemente usati in gravidanza», si legge nel report dell’AIFA,
spesso non sono sufficientemente testati in questa fascia di popolazione, non ottimizzati nella dose, con informazioni sulla farmacocinetica e sul profilo di sicurezza (specialmente sugli esiti a lungo termine) raramente disponibili e molto limitate, incomplete, non conclusive e talora contraddittorie. Oltre a questo, anche le informazioni comunemente contenute nei fogli illustrativi che corredano le confezioni dei farmaci sono di scarsa utilità nel guidare le scelte prescrittive del medico.
Ciò non fa altro che rendere ancora più difficile il compito dei professionisti sanitari, che si ritrovano ad assumersi la responsabilità di prescrivere farmaci a donne in gravidanza, non avendo spesso la certezza assoluta degli effetti che questi potranno avere su di loro. Per tali ragioni, il regolamento dell’Unione europea sulla sperimentazione clinica di medicinali per uso umano pubblicato nel 2014 ha stabilito ad esempio che le donne in gravidanza o in fase di allattamento possono prendere parte a sperimentazioni cliniche, a patto che i benefici siano maggiori dei rischi.
Androcentrismo e medicina
Il «vuoto di conoscenza», come lo ha definito la dottoressa Silvia De Francia, dovuto all’esclusione del modello femminile dalle sperimentazioni dei farmaci in atto almeno fino al 1993, può essere spiegato in vari modi. L’inclusione del modello femminile nelle sperimentazioni comporta impegno e costi maggiori, a causa delle tante variabili da tenere in considerazione e che possono inficiare l’andamento della ricerca, come i fattori ormonali, eventuali gravidanze o i cambiamenti dovuti alla menopausa. A ciò va aggiunta la maggiore importanza che viene data alla salvaguardia del ruolo riproduttivo della donna piuttosto che alla sua salute. Un altro aspetto già accennato nel primo capitolo e che racchiude e completa questa marginalizzazione delle donne nelle sperimentazioni cliniche e nello studio della medicina è poi ciò che viene descritto attraverso il concetto di androcentrismo o andronormatività che regola le società occidentali. Come si legge in una ricerca condotta dall’Università di Yale,
L’androcentrismo si riferisce alla propensione a incentrare la società sui bisogni, le priorità e i valori degli uomini e a relegare le donne alla periferia.
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(Foto di National Cancer Institute su Unsplash)
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