La questione della carne di cavallo trovata in Inghilterra all’interno delle lasagne “al ragù di manzo”, commercializzate sotto il nome di un noto marchio di cibo distribuito nei supermercati, offre qualche spunto di riflessione. Innanzitutto sgomberiamo il campo da ogni dubbio sul fatto che il problema possa in qualche modo riguardare anche l’Italia. L’azienda che vende i propri prodotti sotto lo stesso marchio nel nostro Paese ha diffuso un comunicato in cui rassicura (e non c’è motivo di sospettare che non sia così) che non vi è alcun legame tra questa e i fornitori per il Regno Unito. Il Financial Times coglie l’episodio per collegarlo a una generale perdita di riferimenti all’interno della filiera alimentare dovuta alla catena dei fornitori, «lunga, complicata, transnazionale e sotto enormi pressioni». Queste ultime legate al fatto che i consumatori si sono abituati a prezzi che si sono molto abbassati da quando esiste la grande distribuzione, ed è difficile mantenerli allo stesso livello da quando l’economia mondiale è entrata in crisi.

«Al vertice del mercato -scrive il Financial Times, dove i macellai bio promuovono la tracciabilità alimentare e in pratica conosci perfino il nome dell’animale che metti in tavola, scambiare un cavallo per una mucca è impensabile. Ma all’estremità opposta del mercato, oberata dall’aumento dei prezzi e dalla crescente domanda di carne dalla Cina e dalle economie emergenti, di fatto finiscono in pentola strane cose». Il mercato sa poco di ciò che succede nei passaggi intermedi che vanno dal produttore al consumatore. Peraltro è spesso il primo, l’agricoltore o allevatore, a essere schiacciato dalla concorrenza e da un sistema che lo pone ai margini, privandolo di qualsiasi potere contrattuale. Il consumatore è invece all’oscuro del perché ciò che acquista abbia un prezzo anziché un altro. In realtà, il mancato controllo sulla filiera sta proprio alla base del raggiungimento del prezzo finale. «I supermercati non sono molto informati sui loro prodotti e i rapporti di lavoro con i fornitori sono transnazionali», dice Sion Robert, senior partner della società di consulenze European food and farming partnerships. «Uno dei loro fornitori può trovarsi sotto forti pressioni finanziarie a loro insaputa».

E anche a livello istituzionale, il sistema in essere non favorisce la regolarità delle operazioni: «Sulle 55mila regole agricole dell’Ue, 30mila riguardano la sicurezza alimentare -scrive il quotidiano olandese Nrc Handelsblad-[…], ma sono molto difficili da far rispettare. I politici vorrebbero che gli agricoltori, i produttori e i distributori facciano in modo che tutto sia in ordine, perché possono subire un’ispezione in qualsiasi momento e dunque è nel loro interesse. Questa autoregolamentazione è di moda anche nel settore bancario. I leader politici che hanno creato la liberalizzazione e l’internazionalizzazione della finanza negli anni ottanta e novanta volevano che il settore si autoregolasse. Quando si sono accorti che questo generava preoccupanti eccessi, era ormai troppo tardi […]. Il sistema non è stato ben congegnato, e i rischi sono stati sottovalutati». Un corto circuito interessante, che a molti è di sicuro sfuggito. Ma è invece chiaro che l’eccessiva spinta alla concentrazione dei fornitori della grande distribuzione crea quelli che potremmo chiamare dei “vuoti di qualità”, anche all’interno di una filiera “sana”. L’unico strumento per uscire da questo sistema di “cibo subprime è andare contro questa logica, rapportarsi direttamente con i fornitori (più locali possibile), superare la filiera e, prima di afferrare coltello e forchetta, sapere ciò che si è messo nel piatto.