Le microplastiche ormai vengono ritrovate ovunque, tessuti biologici compresi, e stiamo cominciando solo ora a capire quali danni possano comportare. Ne scrive il Tascabile.

Un involucro di Mars con la pubblicità dei Mondiali di calcio del 1994. Contenitori per hamburger di McDonald’s dei primi anni Novanta. Buste di patatine come Lay’s, e di snack e dolciumi dei marchi globali come Bounty, Kit Kat, M&M’s, Kinder Bueno e Twix degli ultimi tre decenni. E poi mascherine, tante, di diverse fogge e a vari stadi di logoramento, ma tutte ideali per realizzare una pavimentazione comoda e sicura. Si trova questo e altro, nei nidi delle folaghe dei canali di Amsterdam: plastica raccolta nelle strade e nelle acque anno dopo anno, che gli uccelli lasciano lì anche quando migrano, perché sanno che la ritroveranno solo un po’ più logora, e che questo permetterà loro di risparmiare tempo e fatica, quando deporranno le nuove uova.

Ma quei nidi tappezzati di plastiche, analizzati da un gruppo di ricercatori dell’Università di Leida, e illustrati in un articolo appena pubblicato su Ecology, regalano anche una stratigrafia perfetta dell’Antropocene degli ultimi trent’anni. Anni nei quali il confezionamento in plastica soprattutto del cibo è diventato pervasivo, e ha iniziato a lasciare dietro di sé sempre più detriti delle forme più varie, e di dimensioni che vanno da vari centimetri al milionesimo di millimetro, fino a invadere ogni possibile ambiente e a ricoprire vari ruoli inediti quali, appunto, quello di rivestimento per nidi.

La conseguenza è che oggi, sulla Terra, non esiste virtualmente luogo o essere vivente che non contenga plastica, come ha confermato un altro studio uscito solo poche settimane prima, che descrive una realtà molto lontana dalla capitale dei Paesi Bassi vittima dell’overtourism: quella delle Alpi, cioè di un ambiente teoricamente incontaminato, a quote superiori ai tremila metri. In quel caso, ricercatori dell’Helmholtz Centre for Environmental Research-UFZ di Lipsia, in Germania, hanno chiesto a un gruppo di alpinisti professionisti di prelevare per loro campioni di neve in 14 punti dell’Alta via che va da Chamonix, in Francia, a Zermatt, in Svizzera, toccando anche il territorio italiano. Il risultato, pubblicato su Scientific Reports, è stato che i campioni di cinque zone di prelievo contenevano nanoplastiche, cioè frammenti di dimensioni pari a un milionesimo di millimetro, in concentrazioni comprese tra i 2 e gli 80 nanogrammi per millilitro di neve sciolta. Ma l’aspetto più interessante è stato forse quello della provenienza di quei polimeri, identificata in base al tipo: si trattava soprattutto di detriti di pneumatici (polietilene e polistirene) e, in quantità inferiori, di bottiglie (di polietilen-tereftalato o PET). Quei frammenti avevano fatto molta strada. Controllando i dati atmosferici e meteorologici, i ricercatori hanno capito che erano arrivati lì soprattutto dalla Francia e dalla Spagna, e in gran parte dall’Oceano Atlantico.

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(Foto di Naja Bertolt Jensen su Unsplash)

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