Diversi anni fa, Google provò a commercializzare degli occhiali “smart”, dotati di tecnologia che permettesse di visualizzare contenuti in realtà aumentata, ma anche di una telecamera per registrare ciò che inquadravano. Il progetto non andò benissimo, e nel 2015 Google interruppe la vendita (ora ci sta riprovando con una versione “Enterprise”, pensata più come strumento di lavoro che come gingillo tecnologico).
Già allora furono sollevati problemi relativi alla privacy delle persone le cui immagini fossero catturate senza che ne fossero a conoscenza. Ma i primi Google Glass ebbero scarso successo, anche perché costavano tantissimo ed erano davvero brutti, e la loro circolazione si interruppe ancor prima delle polemiche.
Oggi la questione torna d’attualità visto che Facebook e Ray-Ban hanno annunciato il lancio di un modello di occhiali da sole con telecamera, realizzato in collaborazione. Stavolta, visto il marchio in questione, l’estetica non è rimasta in secondo piano, e il prezzo è decisamente più accessibile. Insomma, la cosa potrebbe funzionare.
A livello tecnologico, i Ray-Ban Stories (così si chiamano) sono qualcosa di diverso dai Google Glass. Si tratta in sostanza di occhiali con una telecamera integrata che permette di scattare foto e girare video e poi salvarli facilmente sul proprio telefono o condividerli sul profilo Instagram. Nelle stanghette sono contenuti anche altoparlanti e microfono, ed è possibile ricevere telefonate e ascoltare musica.
Tornano quindi le preoccupazioni a proposito delle violazioni della privacy che un prodotto del genere implica, visto che ad avvertire della registrazione in corso c’è solo una luce LED, a quanto pare molto debole (e che si può nascondere facilmente).
Insomma, se ne parlerà. Ma vogliamo cogliere l’occasione di questa nuova discussione per porre una domanda: se teniamo tanto alla nostra privacy, perché non esitiamo poi a inserire i nostri dati nei siti web più diversi, offrendo alle compagnie che li gestiscono informazioni preziose e talvolta molto intime?
Secondo un sondaggio del Pew Research Center del 2019, l’81 per cento degli statunitensi pensa che i rischi posti dalla raccolta di dati da parte delle aziende superi i benefici che si possono ottenere dai loro servizi.
Eppure la maggior parte di noi non esita a premere “accetta tutto”, anche se di fianco c’è il pulsante “rifiuta tutto”, quando un sito web gli chiede l’autorizzazione alla raccolta dei dati di comportamento tramite cookies. C’è da dire che spesso questi banner sono costruiti in modo che sia molto più facile accettare che rifiutare, ma questo è un altro tema.
I ricercatori Joe Green e Azim Shariff hanno provato ad analizzare questo fenomeno da un punto di vista psicologico, accostandolo all’evoluzione della nostra mente rispetto al contesto.
Il punto, sostengono gli autori, è che Homo sapiens ha passato la maggior parte della propria storia ancestrale in un ambiente che è rimasto sostanzialmente inalterato per decine di migliaia di anni. Poi, circa 12 mila anni fa, è iniziata una fase di cambiamento che in poche migliaia di anni (che sono nulla per i tempi dell’evoluzione) ha portato dalla nascita dell’agricoltura all’invenzione della scrittura e della stampa, alla nascita e caduta di imperi, ai viaggi spaziali, fino ad arrivare alla rivoluzione digitale e alla nascita dei social network.
La nostra specie non ha avuto il tempo, in termini evoluzionistici, di adattare le proprie funzioni a un contesto cambiato così velocemente. Si creano così dei disallineamenti che portano ai comportamenti contradditori di cui sopra.
La nostra preoccupazione per la privacy, spiegano i ricercatori, ha le sue radici evolutive nel bisogno di mantenere i confini tra sé e gli altri, per questioni di sicurezza. Ma la protezione e l’isolamento devono trovare un equilibrio con l’esigenza di interazione sociale. Per questo i nostri meccanismi di protezione della privacy reagiscono in modo flessibile ai segnali dell’ambiente, aiutandoci a determinare quando, cosa e con chi condividiamo lo spazio fisico e le informazioni personali. Per esempio: abbassiamo di riflesso la voce quando ci sono intrusi strani o ostili a portata d’orecchio, e proviamo un senso di inquietudine quando qualcuno ci guarda alle spalle.
Questi nostri meccanismi di reazione sono stati sconvolti dalle innovazioni tecnologiche. Telecamere e microfoni erano già abbastanza impegnativi per il nostro cervello (e le recenti evoluzioni relative ai sistemi di riconoscimento facciale gettano ulteriori inquietudini rispetto a prospettive di sorveglianza di massa), ma la creazione di una nostro sé digitale è probabilmente il più grande cambiamento nella storia dell’umanità dal punto di vista della privacy.
Il nostro cervello è abituato a regolarsi su cosa dire e quando in relazione all’ambiente in cui ci troviamo. Se conosco le altre persone e mi fido di loro potrò decidere di condividere un’informazione riservata o un pensiero privato. Viceversa, eviterò di farlo se non sento di avere la situazione sotto controllo, magari perché le persone intorno sono troppe.
Online, però, al nostro organismo vengono a mancare tutti questi dati di contesto, e i nostri comportamenti cambiano di conseguenza. «Privi di stimoli sociali riconoscibili come l’affollamento e la vicinanza, i pensieri che sarebbe meglio riservare a pochi eletti si fanno strada presso una gamma molto più ampia di persone, molte delle quali non sono particolarmente preoccupati per le nostre sorti. Online possiamo sentirci soli e intoccabili, quando in realtà non siamo né l’una né l’altra cosa».
Il contesto in cui viviamo è troppo complesso per valutare intuitivamente costi e benefici dei nostri comportamenti. Finiamo per sottostimare situazioni di rischio molto alte, magari perché troppo complesse e difficili da afferrare, e di reagire in maniera eccessiva a eventi meno problematici ma più evocativi. Chi è interessato ai nostri dati, siano essi soggetti pubblici o privati, può fare leva su questa discrepanza cognitiva per stimolare le nostre reazioni nell’una o nell’altra direzione, e su questo è bene restare vigili.
È dunque importante pretendere di più in termini di protezione della privacy dalle aziende e dai governi, ma è altrettanto importante essere più consapevoli e prudenti nei propri comportamenti individuali.
(Foto di Bram Van Oost su Unsplash)
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