Il 2020 ha portato con sé una grande quantità di parole che non avevamo mai sentito prima. O almeno non con la stessa accezione o con la stessa frequenza: coronavirus, quarantena, pandemia, isolamento, congiunto, tampone, assembramento, coprifuoco, tracciamento, vaccino, ristoro. Queste per citarne solo alcune tra le tante. In questo e in un prossimo articolo proviamo a fare una lista, parziale e discrezionale, delle parole che vorremmo o non vorremmo sentire nel 2021.

Le parole che non vorremmo più sentire

Lockdown. A quasi un anno dall’inizio della pandemia, non è accettabile che si parli ancora di lockdown come soluzione efficace per affrontarla. Non è un invito a non rispettare eventuali decisioni politiche di questo tipo, sia chiaro. Ci auguriamo però che le conoscenze e l’esperienza acquisite in questo lungo e difficile periodo permettano di trovare soluzioni diverse alle sfide che abbiamo davanti. Certo ci vogliono interventi strutturali per fare in modo che soluzioni alternative siano percorribili, è il contesto che deve cambiare, non basta la volontà.

Emergenza. C’è un problema di definizioni. Una situazione che si protrae molto a lungo non può essere definita “emergenza”. In Italia siamo abituati a leggere quotidianamente di emergenze di ogni tipo: emergenza abitativa, emergenza ambientale, emergenza economica, finanziaria, e ora anche sanitaria. Questa pigrizia espressiva porta a due conseguenze, entrambe negative: da un lato si esime chi dovrebbe occuparsi dei problemi dal farlo in maniera strutturata, articolata, credibile. La gestione “in emergenza” è per definizione imperfetta, provvisoria, non risolutiva, perché deve privilegiare la tempestività alla completezza. I problemi dell’Italia sono invece per la maggior parte noti, e bisogna uscire da questa chiave di lettura per affrontarli con serietà. L’altra conseguenza è che la parola stessa, emergenza, non fa più l’effetto che dovrebbe fare. Se tutto è emergenza, l’emergenza diventa normalità, e allora bisogna alzare di continuo il tiro del sensazionalismo, per smuovere l’emotività dei cittadini.

Commissario straordinario. Un regime di “emergenza permanente” porta alla creazione di una serie di ruoli e “cabine di regia” che tendono poi ad agire senza alcuna trasparenza. Viene da chiedersi come sia possibile che l’Italia, dove gli apparati burocratici e decisionali non mancano di certo, debba continuamente dotarsi di nuove entità e figure dai più ampi poteri e discrezionalità. Se quelle già esistenti non bastano a gestire situazioni straordinarie, perché non ci si occupa di riformarle in tempi normali (che non arrivano mai se siamo sempre “in emergenza”)? E poi è possibile che si torni sempre ai soliti nomi per gestire qualunque cosa, dai terremoti alla pandemia e alle alluvioni? Sospettiamo che ci siano persone altrettanto dotate in giro, e ci chiediamo come si possano avere le competenze e il tempo per gestire questioni così grandi e diverse.

Didattica a distanza (o sinonimi). Le scuole vanno aperte, le scuole vanno chiuse. Questa frase riassume più o meno il livello del dibattito politico in merito al funzionamento dell’istruzione durante la pandemia. Nessuno che si sia preso la briga di spiegare, dati alla mano, perché dovrebbero restare chiuse, e cioè se nonostante le precauzioni le scuole siano focolai di contagio. Qualcuno è andato sul campo a studiare ciò che succede? Perché non si testano modelli diversi in contesti diversi, per poi confrontare i risultati e proporre nuove soluzioni? Nessuno che si soffermi su come dovrebbero essere riaperte, affinché la didattica si svolga in sicurezza. Le proteste degli studenti nei giorni scorsi sono state sbrigativamente raccontate come manifestazioni della volontà di “tornare a scuola”. Ma gli studenti chiedevano un’altra cosa, ossia di tornare a scuola in sicurezza. Capiremo solo tra molti anni la gravità delle conseguenze di questa prolungata assenza degli studenti dalle aule.

Rassegnazione. Quando tutto va male, è facile abbattersi, abbassare l’asticella delle aspettative, accontentarsi. Ma è proprio ciò che non bisogna fare in questo momento. Un clima di generale rassegnazione è il contesto ideale per fare emergere i mediocri, che nella generale apatia possono elevarsi a punti di riferimento. È invece proprio ora che bisogna fare appello a quella “parte migliore del Paese” che viene spesso tirata in ballo retoricamente, ma che di rado ha la possibilità di esprimersi. È il momento di mettere in campo ciò che si ha di buono da esprimere, di smettere di accontentarsi dei tanti “meno peggio” che ormai spadroneggiano in ogni settore.

Odio. Negli ultimi anni, sui media e in politica, in Italia come all’estero, c’è chi ha giocato a mettere le persone una contro l’altra, a esasperare i toni di ogni dibattito fino a farlo diventare uno scontro tra “noi” e “loro”. Negli Stati Uniti si è visto bene a cosa può portare una strategia di questo tipo. E anche ora che ci sembra di “aver visto tutto” bisogna stare attenti, perché dentro e fuori dall’Italia il gioco è ad alzare sempre di più l’asticella di ciò che è tollerabile, di ciò che si può fare e dire. Occorre fermarsi finché siamo in tempo, e gettare le basi per un confronto diverso. Ma ne parleremo nella seconda parte.

(Foto di Raphael Schaller su Unsplash)

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