Nelle settimane scorse, alcuni giornali statunitensi hanno parlato di “Grande dimissione” (Great resignation) per riferirsi al gran numero di americani impiegati in professioni qualificate che hanno lasciato il proprio lavoro. È un fenomeno ancora da studiare, ma il Ministero del lavoro statunitense, in un report pubblicato a giugno, ha parlato di quattro milioni di lavoratori che hanno dato le dimissioni nel solo mese di aprile di quest’anno.
Come spiega Cal Newport sul New Yorker, si tratta in genere di persone con un alto livello d’istruzione che lasciano il proprio lavoro non perché la pandemia li abbia messi in particolari difficoltà, bensì perché – almeno questo vale per una parte di essi – li ha spinti a ripensare il ruolo del lavoro nelle loro vite. Molti hanno messo in atto un ridimensionamento della propria carriera, riducendo i propri carichi di lavoro (e quindi anche i guadagni), per dare più spazio ad altri aspetti della vita.
In molti casi si trattava di persone dal reddito medio-alto, ma schiacciati da ritmi di lavoro insostenibili, che già da tempo sentivano che il saldo tra ciò che davano e ciò che ricevevano dalle proprie vite lavorative era negativo. Lavoravano molto, facendo molti soldi, potendosi permettere molte cose, ma al prezzo di ritrovarsi esausti e, soprattutto, apparentemente senza alternative.
Poi è arrivata la pandemia, che ha cambiato completamente la prospettiva. Spesso i ritmi di lavoro non sono diminuiti, ma comunque è aumentato il tempo a disposizione per prendere coscienza della propria condizione, fino a decidere per un cambiamento radicale.
Ancora non è chiaro quanto durerà questo fenomeno. Molte persone potrebbero non trovare particolare soddisfazione nel modo in cui investono il tempo “liberato” che hanno conquistato, e quindi tornare a cercare altro. Inoltre lo slancio verso i grandi cambiamenti talvolta tende a essere riassorbito da una “normalità” alla quale ci si abitua sempre troppo in fretta. Del resto pare che i posti lasciati liberi stiano venendo occupati molto velocemente da persone che evidentemente non hanno così paura di affrontare una vita frenetica. Quella della Grande dimissione potrebbe quindi essere una parentesi fugace.
E in Italia?
Molto resta da studiare e da capire, dunque. E in Italia cosa sta succedendo? Al momento non sembra di poter identificare il fenomeno in maniera così netta, forse perché ancora mancano i dati necessari per studiarlo. Il ricercatore Franco Armillei ha però provato ad analizzare il fenomeno della “riallocazione”, con cui si intende un lavoratore che cambia settore o professione.
In entrambi i casi Armillei ha preso in considerazione le nuove attivazioni contrattuali dal 2018 in poi, classificando come “riallocati” i lavoratori che sottoscrivevano un contratto in un settore (o in una professione) diversa dal precedente.
«La figura 1 mostra il risultato, per gli ultimi quattro anni – scrive Armillei –. I mesi di marzo e aprile 2020, in piena pandemia, corrispondono a un picco dell’indice: circa il 30 per cento delle attivazioni viene effettuato in un settore diverso rispetto a quello in cui lo stesso lavoratore lavorava in precedenza, contro circa il 25 per cento dei due anni precedenti. Si tratta di un incremento consistente. L’indice ritorna poi su livelli simili rispetto agli anni precedenti. Il divario riprende ad ampliarsi in coincidenza con l’arrivo della seconda ondata (ottobre-dicembre 2020) e della terza (febbraio-marzo 2021). È importante notare come i picchi nell’indice corrispondono, oltre che alle ondate del virus, anche ai mesi di maggior calo del numero assoluto di attivazioni, fattore questo che potrebbe far pensare a una riallocazione contingente e non strutturale.
Il principale settore di arrivo dei lavoratori riallocati è stato l’istruzione.
Si potrebbe ipotizzare che, a differenza degli Stati Uniti, in Italia diverse persone abbiano sfruttato i mesi di stop forzato per muoversi verso un settore considerato più “sicuro” (per quanto precario e accidentato) come quello dell’istruzione pubblica. Per alcuni il lockdown potrebbe essere stato un’occasione per completare percorsi di studio interrotti in anni precedenti, aprendosi così una strada alternativa a quella in cui erano impegnati fino a quel momento.
(Foto di David Siglin su Unsplash )
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