Nel corso degli ultimi decenni, l’Italia ha messo in campo una serie di incentivi per contrastare la “fuga dei cervelli”. Con questa ormai celebre sineddoche si intende la tendenza di molti laureati e persone con una formazione altamente specializzata a lasciare il paese in cerca di maggior fortuna all’estero. Come scrivevamo molti anni fa, non c’è niente di male in assoluto nel fatto che diversi giovani si trasferiscano all’estero all’inizio della loro carriera lavorativa. Si tratta di un’esperienza importante a livello formativo, professionale ma anche personale, perché porta (nei casi migliori) a confrontarsi con culture e paesi diversi, in uno scambio che arricchisce tutti.

Il problema sta nel fatto che l’Italia non è abbastanza brava a favorire il “rientro dei cervelli”, cosa che invece altri paesi riescono a fare meglio di noi. Sono circa vent’anni che l’Italia introduce misure a questo fine, tutte incentrate sugli incentivi fiscali a favore di chi sceglie di tornare. Un’analisi di Lavoce.info riassume quali sono i provvedimenti introdotti nel corso del tempo: «I primi sono stati introdotti nel 2004 per i docenti universitari e ricercatori che tornavano in Italia dopo due anni all’estero. Tuttavia, è con la legge “Controesodo” (2010) che gli incentivi vengono estesi a tutti i laureati, a condizione di essere nati a partire dal 1969. I beneficiari godevano di un’esenzione Irpef del 70-80 per cento dei redditi da lavoro dipendente e autonomo. Il regime di Controesodo è stato sostituito nel 2015 dal Dlgs “Impatriati”, che ha rimosso il limite di età ed esteso gli incentivi ai non laureati purché in possesso di elevata specializzazione e di una lunga esperienza all’estero (5 anni). Infine, il Dl “Crescita” del 2019 ha eliminato i requisiti di specializzazione/laurea e reso gli incentivi più generosi».

I dati raccolti da Lavoce.info mostrano che in effetti dopo il 2010 c’è un evidente aumento dei rientri, soprattutto per quanto riguarda le persone laureate (e dal 2015 anche solo diplomate) nate dopo 1969. Tuttavia, nonostante il “rimbalzo” registrato negli anni della pandemia, il bilancio tra espatri e rimpatri pende nettamente a favore dei primi. Se prendiamo il 2019, ultimo anno prima della pandemia, gli espatri sono circa il doppio dei rimpatri (28 mila contro 14 mila). «Inoltre – aggiunge l’articolo – l’Italia rimane il fanalino di coda tra i paesi Ocse in termini di attrattività di immigrazione qualificata dall’estero».

Bisognerebbe quindi chiedersi se ha senso continuare a investire solo o principalmente sull’aspetto fiscale, anche perché, si legge, «non è affatto scontato che i giovani laureati, spesso all’inizio delle rispettive carriere lavorative, siano così sensibili alle differenze di tassazione, soprattutto in un contesto di brain drain come quello italiano».

Recentemente si è parlato della difficoltà per i medici stranieri di lavorare in Italia. I motivi sono di carattere burocratico e riguardano la difficoltà di vedersi riconosciuto un titolo di studio conseguito all’estero. Vale per gli stranieri, ma anche per gli italiani che studiano all’estero. Vale anche, bisogna aggiungere, per gli i ricercatori italiani che iniziano la propria carriera accademica all’estero e poi, sempre a causa della burocrazia, sono scoraggiati dalla difficoltà di competere per bandi che (nonostante l’alto livello di istruzione) fanno fatica a comprendere.

Il podcast Ricercati, prodotto da Chora, ogni settimana intervista un ricercatore o una ricercatrice che vivono all’estero. In fondo alla puntata, c’è una domanda ricorrente: “Hai in programma o ti piacerebbe rientrare in Italia prima o poi?”. Le risposte variano da “no, perché qui mi trovo bene” a “vorrei, ma la burocrazia è troppo complicata”.

Ben vengano gli incentivi fiscali dunque, se aiutano a mitigare il problema, ma intervenire sulla burocrazia è un passaggio imprescindibile se si vuole davvero invertire il flusso.

(Foto di Fr. Daniel Ciucci su Unsplash)

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