L’ultima bolla finanziaria, quella scoppiata tra il 2007 e il 2008, ce la ricordiamo bene tutti. Ci ha fatto fare i conti con parole nuove come “derivati”, ma anche con concetti già sentiti ma un più lontani dalla vita di ogni giorno: crediti deteriorati, crisi del mercato immobiliare, deflazione, stagnazione, e poi il più temuto di tutti: disoccupazione. Ora che non si parla più di “bolle”, quali sono le prossime pronte a scoppiare? Si pone il quesito Mauro Meggiolaro, che si occupa di finanza etica, sul sito Non con i miei soldi.
In particolare, riprendendo il tweet di un analista economico franco-americano, Jesse Colombo, viene pubblicato un lungo (e impressionante) elenco di nuove bolle pronte a scoppiare. Mentre tutto scorre come se l’ultima crisi fosse un vago ricordo, una cosa che capitata senza un perché, un po’ come un terremoto, che bisogna accettare e imporsi di tirare avanti, sono tante le bolle in attività nel sottosuolo della finanza e del mercato, e sarebbe bene esserne informati più di quanto non accada seguendo la stampa generalista. Secondo Colombo, la tanto sbandierata ripresa che, seppure lenta e incerta (almeno in Italia), ci starebbe portando fuori dalla palude, è in realtà basata su ulteriori bolle, che con un neologismo egli definisce una bubblecovery.
La maggior parte delle bolle individuate da Colombo riguarda principalmente gli Stati Uniti, ma ormai sappiamo bene (se il 2008 ci ha insegnato qualcosa) che questo non ci deve tranquillizzare più di tanto. Dall’elenco (che trovate sul suo blog http://www.thebubblebubble.com/), Meggiolaro ne cita alcune: «Quello delle azioni negli Stati Uniti, poi c’è la bolla immobiliare Usa 2.0, quella delle start-up tecnologiche, dei derivati, delle commodities e ultima, ma non meno importante, quella dell’arte, del vino e dei superalcolici».
E a proposito di bolle e instabilità finanziarie in genere, sempre Meggiolaro cita un’inchiesta pubblicata il 17 marzo sul Sole 24 Ore, in cui si mette in luce «il trattamento di favore di Deutsche Bank da parte della Banca Centrale Europea rispetto a un altro grande malato del sistema bancario europeo: Monte dei Paschi di Siena. In estrema sintesi, Deutsche Bank è gonfia di prodotti finanziari derivati fino a scoppiare ma gli esperti della Bce non sono in grado di valutarli perché sono troppo complessi e richiederebbero troppo tempo per essere “smontati”. Mentre per Monte dei Paschi, travolta dai crediti deteriorati, l’esame è più semplice visto che qualunque ispettore sa valutare i crediti di una banca. Quindi, alla fine, Deutsche Bank passa gli stress test perché nessuno è in grado di chiederle il capitolo che non ha studiato. Mentre Monte Paschi viene bocciata, perché le voci che mettono in crisi il bilancio sono solo dei banalissimi crediti, che tutti sono in grado di valutare».
Non vogliamo improvvisarci esperti di finanza globale, ma pare abbastanza evidente il fatto che i sistemi di “derivazione” dei titoli ad alto rischio continuino a funzionare indisturbati in certi contesti. Tanto che, oltre a richiedere troppo tempo e risorse per essere valutati («Per analizzare una posizione creditizia ci si impiega da mezza giornata a tre giorni, e quindi la valutazione di un portafoglio da 10 miliardi con una campionatura di 1.000 posizioni richiede tra i 500 e i 3mila giorni-uomo. Ma per valutare 10 miliardi di derivati servirebbe un ammontare di tempo improbabile»), questi strumenti finanziari richiedono che siano proprio coloro che li hanno messi a punto ad analizzarli. «Mentre la metodologia per esaminare i crediti deteriorati sarebbe stata accessibile a qualsiasi ispettore, con i derivati i soli esperti in grado di “far girare” i modelli che avrebbero permesso di mettere alla prova le valutazioni riportate nei bilanci degli istituti vigilati sarebbero stati quelli delle banche d’investimento americane, da Goldman Sachs a Morgan Stanley, che avevano escogitato i prodotti in questione. E che li avevano venduti alle banche europee. Ricorrendo a loro si sarebbe ovviamente incorsi in una situazione di potenziale conflitto d’interesse».
Oltre a essere perplessi per i “due pesi e due misure” applicati nell’analisi di Mps e Deutsche Bank da parte dell’organo di controllo europeo, siamo dunque preoccupati nell’apprendere che, pur avendo l’istituto tedesco “ripulito” il proprio portafoglio titoli dai prodotti più “tossici”, restano ampi margini alle banche per sostituirli con altri che hanno un aspetto più presentabile, ma di cui nessuno è in grado di dire con certezza (per i motivi di cui sopra) che siano davvero sicuri. Eppure, anche se si fa finta di non vedere la bolla che cresce sempre più grande intorno a sé, è quando essa scoppia che la realtà si presenta in tutta la sua ruvida concretezza.
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