Riprendiamo le pubblicazioni con un articolo di Vitalba Azzollini, che opera presso la Consob, sull’efficacia delle quote rosa come mezzo per favorire la lotta alla corruzione. Il fatto che nei Paesi in cui è più alta la partecipazione delle donne alla politica e all’economia la corruzione sia minore, sostiene Azzollini, non implica che mettere più donne in ruoli di potere sia il metodo giusto per sconfiggere il fenomeno: un sistema basato su valori come libertà e uguaglianza è un antidoto migliore. Seppure siamo convinti che lo strumento delle quote rosa sia un buon mezzo per favorire le “pari opportunità”, riprendiamo l’interessante riflessione di Azzollini uscita su Lavoce.info.
Corruzione e quote rosa
Quando le cronache si occupano di episodi di corruzione, viene talvolta proposta una soluzione molto suggestiva, avanzata per la prima volta anni fa. Sulla base di una presunta maggiore integrità delle donne rispetto agli uomini e dell’evidenza empirica che mostra come negli stati dove esse occupano più posizioni di potere si registrano livelli inferiori di corruzione, si è desunto che il risultato sarebbe determinato dalla elevata presenza femminile, la quale andrebbe pertanto incentivata. La conclusione serve a conciliare due diverse esigenze – combattere il malaffare politico-amministrativo e, al contempo, favorire l’accesso femminile a funzioni apicali – e nel 2001 è stata ripresa dalla Banca Mondiale nel rapporto “Engendering development”, teso a dimostrare l’importanza della parità di genere nello sviluppo. In seguito, si è cominciato a dubitare dell’asserita differenza tra sessi in termini di standard etici e del tipo di legame esistente tra genere e corruzione. Innanzitutto, è stata invertita la direzione della correlazione, ipotizzandosi che non sia la più estesa presenza di donne in posizioni decisionali ad arginare la corruzione, ma sia quest’ultima a operare attraverso network dai quali le donne sono generalmente escluse. È stato poi evidenziato che una relazione tra partecipazione femminile alla vita politica e più bassi livelli di malaffare si riscontra solo in paesi caratterizzati da sistemi liberal-democratici, ove la corruzione è combattuta in modo più efficace e l’accesso di donne a ruoli di vertice non viene ostacolato. Ciò ha indotto a ipotizzare che la correlazione sia imputabile non a un fairer sex (un sesso più corretto), bensì a un fairer system (un sistema più corretto). L’ambiente politico e culturale, quindi, e non una presunta superiorità morale, rappresenterebbe il fattore determinante: dove la corruzione non viene stigmatizzata, ma reputata usuale in sedi istituzionali, i due sessi si comportano in maniera analoga; invece, nei sistemi in cui è sanzionata socialmente e giuridicamente, oltre che mediante il voto elettorale, le donne risultano meno propense al malaffare. Ciò può essere spiegato dal fatto che le donne mostrano maggiore avversità al rischio rispetto agli uomini e, pertanto, la relazione negativa fra la loro presenza al potere e l’indice della corruzione è più forte nei contesti in cui più alta è la possibilità che vengano chiamate a rispondere di illeciti eventualmente commessi. Un rischio che verrebbe amplificato da diverse circostanze: innanzitutto, le donne sono in genere reputate più integre rispetto agli uomini, dunque ai loro illeciti viene attribuito maggiore disvalore. In secondo luogo, le donne sono soggette a una più attenta osservazione quando arrivano a svolgere ruoli apicali e, pertanto, più esposte all’eventualità di essere scoperte e criticate in caso di errori. Infine, la conquista femminile di incarichi di potere, ancora recente e non consolidata, le rende più inclini a conformarsi alle regole politiche e sociali che consentono loro di conservare la posizione acquisita.
La cultura contro malaffare e discriminazioni
Anche il Groupe d’Etats contre la corruption, valutando la dimensione di genere della corruzione, ha condiviso la tesi che l’aumento delle donne in ruoli chiave può avere un impatto diretto e positivo negli stati democratici in cui questa viene contrastata attraverso presidi adeguati, mentre è improbabile riesca a produrre effetti virtuosi ove l’illegalità connoti la cultura del sistema. È stato osservato come in alcune città del Brasile i sindaci-donna siano meno implicati in casi di malaffare rispetto agli uomini e dimostrino maggiore efficienza nell’utilizzo delle risorse loro assegnate in tema di salute dei cittadini. Tuttavia, non è dimostrato che vi sarebbero i medesimi risultati se l’accesso alla carica avvenisse tramite “quote” di genere, anziché mediante una normale competizione. Quanto all’allocazione dei fondi, non pare che nei paesi sviluppati vi siano differenze significative tra i due sessi in termini di orientamento della spesa pubblica, forse anche in ragione del fatto che gli eletti tendono a rispondere alle preferenze dell’elettorato più che alle proprie. In conclusione, una maggiore partecipazione delle donne a posizioni di potere non sembra rappresentare la formula magica per contrastare la corruzione sistemica e pertanto la richiesta di riservare posti per il genere femminile in ruoli decisionali per raggiungere tale fine rischia di condurre a scelte inefficaci. Invece, misure normative e soprattutto culturali, tese a incentivare le libertà individuali e a combattere ogni discriminazione, nonché metodi di selezione a cariche pubbliche improntati a criteri di merito, competenza e trasparenza, possono agevolare l’accesso alle donne e, al contempo, creare un ambiente sfavorevole alla corruzione. Obiettivi virtuosi sono perseguibili mediante azioni che operano nella stessa direzione: utilizzare la parità di genere come un mezzo, anziché come un fine, può invece determinare effetti non auspicabili.
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