Da un po’ di tempo ci siamo abituati al fatto che le nostre relazioni, lavorative e personali, possano avvenire attraverso tecnologie che ci mettono in contatto anche se siamo a grandi distanze (o, durante il lockdown, anche brevissime per quanto insuperabili). Alcune riflessioni di Clara Miranda Scherffig pubblicate sul Tascabile.
Un sabato sera nel primo mese di quarantena, io e il mio ragazzo abbiamo proposto per la prima volta a una coppia di amici di berci un bicchiere online. In quattro con due apparecchi, ciascuno appollaiato di fronte al proprio schermo, nessun intoppo tecnico rilevante ci ha impedito di passare la cosiddetta serata in compagnia, anche se ogni tanto gli amici al di là dello schermo “saltavano”. Chiamavano da smartphone, erano al piano terra: non le condizioni migliori per una buona connessione. Ogni tanto lui compariva pixelato in alto a sinistra, lei sfocata in basso a destra. Oppure rimanevano congelati per una frazione di secondo, seduti nel loro salotto inanimato. È sempre straniante osservare oggetti immobili in video live, a volte sono l’unico elemento che permette di distinguere un essere vivente dall’inorganico dello sfondo. La conversazione comunque procedeva più o meno regolarmente, salvo per dei percettibili ritardi, discrepanze tra audio e video, con il primo che accelerava sul secondo per recuperare lo svantaggio. Poi lui è rimasto bloccato in fermo immagine, immortalato con la mano sulla fronte, sfumata dalla bassa risoluzione. A vederlo così, manipolato dalla tecnologia a sua insaputa, mi ha sorpreso un moto di tenerezza. Più perplessa che commossa, mi sono chiesta: stavo empatizzando con lui, con l’umano intrappolato in questa assurda crisi, o con l’oggetto, l’immagine che me lo mostrava così?
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(Photo by Gabriel Benois on Unsplash)