La giornalista statunitense Rachel Donadio, che ha seguito le elezioni italiane per The Atlantic, è rimasta colpita soprattutto da una cosa: l’assenza di donne in ruoli chiave nel dibattito politico. Non era la sua prima visita in Italia, Donadio aveva vissuto a Roma per anni, prima di lasciare il Paese nel 2013. Al rientro, dopo cinque anni, a lasciarla senza parole non sono stati il caos politico, il populismo, le tante cose che non funzionano, e nemmeno la bellezza dei luoghi: ci si abitua a tutto. Ma il fatto che le donne fossero relegate in posizioni di secondo piano, forse anche per contrasto rispetto alla forte presa del movimento #MeToo negli Stati Uniti, proprio non le andava giù. «L’Italia ha uno dei più bassi tassi di impiego femminile in Europa, solo la Grecia è messa peggio. Ha anche uno dei più bassi tassi di natalità: solo il 54 per cento delle donne torna a lavorare dopo avere avuto un figlio. A curare i bambini in Italia ci pensano soprattutto i nonni». Una fotografia tanto impietosa quanto esatta dello stato di avanzamento della condizione femminile nel Paese.

Se dalle nostre parti il movimento #MeToo non ha preso piede (se non come copertura di ciò che accadeva negli Stati Uniti) è perché la società non era pronta ad accogliere un cambio di paradigma così forte. Le denunce sono state relativamente poche e, quando ci sono state, non sono mancati commenti critici (di uomini ma anche di donne), sospetti, delegittimazioni. Un articolo esteso e interessante di Manuela Stacca per Il Tascabile ripercorre il problema dell’emancipazione femminile in politica dalla nascita della Repubblica a oggi. «Chiara Volpato in Psicologia del maschilismo(Editori Laterza, 2013) scrive: “Le immagini dei cardinali riuniti in conclave, del vertice della Banca Centrale Europea, di governi, consigli di amministrazione, gerarchie militari mostrano senza bisogno di parole la perdurante supremazia maschile. Il soggetto è irritante, ma capitale. Lo asseriva Simone de Beauvoir, nell’introduzione al Secondo Sesso. Non possiamo che pensarlo anche noi, sessant’anni dopo”».

Dal punto di vista della rappresentanza parlamentare, se si guarda ai numeri, l’Italia non è sola: «Secondo l’IPU (l’Unione Interparlamentare), attualmente le donne sono il 23 per cento dei parlamentari del mondo. In testa ci sono tre paesi “poveri” – Rwanda (61 per cento), Cuba (53 per cento) e Bolivia (53 per cento) – con i paesi nordici fermi al 41 per cento, le Americhe al 29 per cento e l’Europa al 27 per cento». La media italiana dopo le ultime elezioni è del 35 per cento. Un valore che non si discosta molto dalla situazione precedente, e che sarebbe dovuto essere più alto se avessero funzionato i meccanismi contenuti nella legge elettorale (qui abbiamo spiegato come sono state aggirate le “quote rosa” previste dal “Rosatellum”).

Una spinta maggiore verso la partecipazione delle donne in ruoli di leadership sarebbe potuta arrivare nella composizione del governo, dove si potevano dare segnali forti di cambiamento in questo senso. C’è stato invece un passo indietro rispetto agli esecutivi precedenti, con solo 5 ministre su 18 ministeri, di cui solo due donne in dicasteri considerati centrali, ossia Difesa e Sanità. Come denunciano Nadia Maria Filippini e Anna Scattigno nel volume Una democrazia incompiuta (FrancoAngeli, 2007), in Italia le donne, anche quando ci sono, hanno spesso ruoli ancillari rispetto agli uomini. Si fanno gli esempi dei governi Berlusconi e della schiera di “fedelissime” che l’hanno sempre accompagnato senza criticarlo. «Chi ha provato a far sentire la propria voce, a mostrare un’autonomia di pensiero, a sfidare il potere maschile è stata messa a tacere attraverso varie forme di sessismo. Ne è un esempio Stefania Prestigiacomo, quando nel 2005 lottò per l’introduzione delle “quote rosa” e Pippo Gianni disse: “Le donne non ci devono scassare la minchia”».

Questo rapporto di subordinazione si riverbera anche al di fuori della politica. Nel giornalismo, per esempio: «La scrittrice Michela Murgia da settimane continua a fotografare le prime pagine dei principali quotidiani italiani, dominate da articoli sulla politica italiana e internazionale firmati quasi esclusivamente da uomini. Le donne, quando intervengono, intervistano altri uomini – che danno la loro spiegazione dei fatti (un fenomeno definito mansplaining, ndr) –, o parlano di questioni femminili. Scrive Murgia: “Il fatto che l’assenza delle donne non sia percepita come un problema è la parte principale del problema”».

Un aneddoto di Donadio la dice lunga su quanto ancora ci sia da lavorare per far segnare un progresso in questo senso: «Anni fa ero caposervizio a Roma per il New York Times. Quando mi presentavo per intervistare degli uomini, spesso questi erano colti di sorpresa; pensavano a un errore, e che io fossi l’assistente del vero corrispondente. Spesso mi chiedevano – e questo dice molto sull’Italia – se per caso i miei genitori fossero stati a loro volta corrispondenti per il Times, come se il lavoro fosse una questione ereditaria. Ero un animale raro: un prodotto della meritocrazia, in un Paese in cui ce n’era così poca».

(Foto di Giacomo Ferroni su Unsplash)