Il documentario Leaving Neverland, andato in onda il 3 e 4 marzo sulla tivù americana HBO, ha riportato alla ribalta il nome di una delle più grandi pop star della storia, Michael Jackson, mostrandone il lato più oscuro e controverso. Il film ha ricevuto alcune critiche perché racconta solo one side of the story, cioè quello delle vittime. Non si tratta infatti di una riproposizione delle vicende giudiziarie che hanno coinvolto il cantante nel 1993 e nel 2005 per accuse di molestie sessuali su bambini.
La figura di Jackson è quasi sempre sullo sfondo, mostrata e richiamata solo di riflesso. Al centro della narrazione c’è il racconto di due uomini, Wade Robson and James Safechuck, che confessano di aver subito molestie sessuali da parte di Jackson, per anni, quando erano bambini. Il documentario procede per l’impressionante durata di 236 minuti con uno stile asciutto, analitico. La parola è lasciata alle due vittime e alle rispettive famiglie, senza ricercare l’emozione facile o la sintesi brillante, mostrando invece la difficoltà che incontrano gli intervistati nel cercare le parole, nel ricordare, nel chiamare le cose col loro nome.
Chi ha vissuto negli anni in cui il successo di Michael Jackson era all’apice ricorderà il livello di isteria che la sua figura era in grado di generare nei fan. Jackson era un fenomeno globale, un personaggio magnetico in grado di attrarre l’attenzione su di sé come nessun altro. I suoi tour erano eventi talmente enormi che i media si sentivano costretti a darne ampia copertura. Le vendite dei suoi dischi negli anni ‘80 hanno raggiunto livelli che pochi altri nella storia avevano raggiunto (il suo album Thriller, del 1982, con 33 milioni di copie resta il secondo disco più venduto della storia).
Per capire come mai abbiamo deciso di dare rilevanza a questo documentario, tra i tanti argomenti possibili, proviamo a isolare due elementi che permettono di ampliare il discorso oltre la vicenda specifica.
L’eroe infallibile
Il primo è l’aura di infallibilità attorno alla figura di Jackson, che ha indotto per tanti anni le persone coinvolte a non riuscire ad attribuire niente di “cattivo” alla persona del cantante. Chi esce davvero male dal film sono le madri. Man mano che si delinea il rapporto tra Jackson e i bambini in tutta la sua “anomalia” (telefonate quotidiane che durano ore, invio di fax con testi da “coppietta innamorata”, giornate passate a giocare come bambini fino allo sfinimento, ecc.), la figura di Jackson si distacca sempre più dall’immagine di king of pop costruita dai media, per rimpicciolirsi fino a sembrare un piccolo uomo con dei problemi, disturbato e manipolatore. Le vittime, come raccontano più volte, all’epoca erano talmente estasiate all’idea di ricevere le attenzioni del loro eroe, che non percepivano nemmeno gli abusi sessuali come tali. Questi facevano parte della “storia d’amore” che stavano vivendo col loro cantante preferito.
Ma quando la verità emerge in tutta la sua scioccante gravità, allora lo sguardo non può che andare verso i genitori, e in particolare le madri (per motivi diversi i padri sono figure piuttosto assenti in queste famiglie). Come si può cedere alla richiesta di lasciar dormire il proprio bambino nel letto di un adulto semi-sconosciuto (se non attraverso i media), in una stanza lontana dalla propria? Come non insospettirsi davanti alle ripetute telefonate di un ultratrentenne che non vede l’ora di parlare con un ragazzino di sette anni, intrattenendosi per ore? Ciò che rende concreta la visione, al di là del racconto, è la grande quantità di video che ritraggono Jackson mano nella mano con questi bambini mentre si spostano tra camere d’albergo, limousine e palazzetti.
Questi e altri elementi dovrebbero quanto meno insospettire un genitore. Ma avrebbero richiesto di mettere in dubbio l’integrità di Michael Jackson, e quindi sono stati negati per anni, dai bambini come dalle famiglie. Se pensiamo a ciò che accade in tanti altri ambiti, a partire da quello ecclesiastico, ci accorgiamo che forse nessuno di noi è pienamente immune da questo meccanismo che mescola fiducia incondizionata e rimozione.
I pericoli della rimozione del trauma
L’altro aspetto su cui ci soffermiamo è proprio quest’ultimo, la rimozione, e le sue conseguenze. Ciò che accomuna le vite di Robson e Safechuck sono i problemi legati allo sforzo protratto per anni di negare a se stessi il fatto di avere subito degli abusi. Entrambi hanno vissuto momenti di depressione, crisi di nervi, rabbia e difficoltà relazionali, senza riuscire a spiegare, a se stessi e agli altri, il motivo di tali stati d’animo. Quando si porta dentro per tanto tempo un segreto così grande, si sviluppa la capacità di mostrarsi “funzionali” al mondo esterno e nelle relazioni, almeno a un’analisi superficiale. La continua lotta (di cui non si è pienamente coscienti finché la rimozione è in atto) produce però un logoramento progressivo e continuo, che pian piano si manifesta in disturbi della personalità. La paura di essere scoperti, di vedere crollare il proprio mondo attorno, e con esso le proprie certezze, allontanano le vittime dall’ammettere a se stesse di avere subito abusi. Ma è un mondo illusorio, e l’unico modo per riprendere in mano la propria vita è fare il primo passo per uscirne.
Nel caso siate a conoscenza di abusi su minori, Telefono Azzurro ha attivato la linea 1.96.96, a cui si possono rivolgere adulti, bambini e adolescenti. Oppure si può contattare l’associazione negli altri modi indicati sul sito dell’associazione.
(Foto di Alan Light su Wikimedia Commons)