Qualche mese fa, su ZeroNegativo si parlava del rischio che il nostro Paese sia “svenduto” all’estero, ossia che le imprese un tempo più prestigiose del panorama economico siano costrette a cedere le quote di maggioranza a investitori stranieri dopo aver perso completamente il proprio valore. A quel punto, quando i bilanci sono in rosso e l’azienda è smembrata, da vendere resta solo il prestigio, che per quanto ben valutato non arriverà certo a totalizzare grosse cifre. «Piuttosto – concludevamo in quell’articolo – copiamo dagli americani le leggi sul falso in bilancio e sulla bancarotta fraudolenta. Facciamo in modo che chi si macchia di questi reati sia processato e finisca in carcere, e non graziato da una prescrizione che arriva sempre troppo presto». Alla fine di luglio, la rivista MicroMega ha pubblicato un articolo in merito (ispirandosi a sua volta all’Economist), che parte più o meno dalle stesse conclusioni, ma si spinge oltre nell’analisi e arriva a dipingere un quadro piuttosto desolante di ciò che sarà l’Italia dei prossimi anni.
«A causa del declino verticale dell’industria e della sofferenza delle banche italiane, e a causa della colpevole inerzia governativa e dei pesanti vincoli europei, il capitalismo nazionale sta diventando un servile vassallo di quello internazionale. E l’Italia rischia così di precipitare definitivamente nel Terzo Mondo». Ed è solo il primo paragrafo. In particolare, l’autore Enrico Grazzini è allarmato per l’esultanza del presidente del Consiglio Matteo Renzi di fronte alla cessione dell’italiana Indesit all’americana Whirlpool. «È ovvio che gli investimenti produttivi esteri sono benvenuti e che non si possono proteggere sempre e a tutti i costi le società nazionali. Ma bisognerebbe assolutamente evitare di cedere le industrie strategiche indispensabili per il futuro industriale del nostro paese. […] Soprattutto l’ondata di cessioni industriali comporta non solo la riduzione drastica dell’occupazione ma anche l’impossibilità di mantenere le condizioni per uno sviluppo economico autonomo e, per quanto possibile, democratico. L’Italia cedendo le sue industrie e le sue banche mina le basi del suo sviluppo e peserà come il due di picche nel turbolento scenario economico e politico europeo e mondiale». Insomma lo Stato, quando interviene, lo fa troppo tardi, come nel caso di Fiat e Alitalia, per cercare di tenere a galla la barca quando sta già affondando.
In fin dei conti, fa notare Grazzini, le aziende che si dimostrano più in grado di competere sul mercato internazionale sono i grandi gruppi a gestione statale: Eni, Enel, Finmeccanica, Fincantieri e pochi altri. Il governo prevede peraltro una progressiva privatizzazione, sperando così di ridurre il debito pubblico. Una mossa che avrà probabilmente come risultato quello di far perdere pezzi importanti (e funzionanti) dell’industria italiana, recuperando in cambio pochi miliardi dalla vendita delle quote delle aziende “di famiglia”. Tra l’altro, questa politica iper-liberista è in contrasto con quanto sta avvenendo in altri Stati, anche molto vicini. La Francia, per esempio, «ha appena difeso il controllo della sua industria nucleare e dell’energia diventando il maggiore azionista di Areva per impedirne la completa acquisizione da parte dell’americana General Electric. L’ideologia liberista di Renzi non è più praticata neppure presso i paesi più liberisti. Obama protegge gelosamente le sue industrie strategiche, l’auto, l’hi-tech e la finanza. La Fed, la Banca centrale americana, stampa decine di miliardi di dollari al mese grazie ai quali le banche d’affari e le industrie statunitensi possono acquistare facilmente i concorrenti esteri […] Angela Merkel fa di tutto per proteggere e sviluppare l’industria tedesca dell’auto e della meccanica. La Germania inoltre manovra l’euro come se fosse il marco per favorire le sue esportazioni e la proiezione internazionale della sua industria».
Ciò che si chiede alla politica è di immaginare e contribuire a realizzare un contesto favorevole all’attività economica, in modo che questa trovi investitori (prima in Italia, poi dall’estero) intenzionati a sviluppare le proprie attività e creare posti di lavoro. L’attenzione degli ultimi governi sembra invece più orientata a rispettare le direttive di Bruxelles, arrivando addirittura a esultare quando un pezzo di storia dell’industria italiana si ritrova con una bandierina a stelle e strisce piantata nella schiena.