All’improvviso, quando meno te l’aspetti, la politica tira fuori una questione già chiarita sessant’anni fa dalla Corte Costituzionale, e crea il classico “caso”. Forse ci stiamo avvicinando alle secche della pausa estiva, se ieri i giornali titolavano sul poco entusiasmante (e altrettanto poco significativo) “scontro” tra il segretario del Pd Matteo Renzi e l’Unione europea. Ben venga quindi (per le redazioni) la proposta, avanzata dallo stesso Pd, di riformare il reato di apologia di fascismo. Ciò che tale proposta (e la conseguente polemica) sembra non considerare è che tale reato esiste già nel nostro ordinamento, e sulla sua interpretazione si è già espressa la consulta.

Tra le disposizioni transitorie e finali della Costituzione italiana, la numero XII dice che «È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista». Nel 1952, la legge n. 645 (detta anche legge Scelba) istituì poi, come attuazione di quella disposizione, il reato di apologia del fascismo. In essa, l’articolo 1 prevede che «quando un’associazione, un movimento o comunque un gruppo di persone non inferiore a cinque persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza, o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista». Tale norma sollevò una questione di costituzionalità, perché andava oltre il mero divieto di ricostituzione del partito fascista, ma ampliava la fattispecie a tutte le situazioni in cui un gruppo di persone perseguisse le «finalità antidemocratiche proprie del partito fascista».

Ci fu chi vide nel testo una minaccia alla libertà di manifestazione del pensiero, e così fu chiamata a pronunciarsi la Corte costituzionale, che nel 1957 (sessant’anni fa, appunto) definì con maggiore chiarezza quando poteva ravvisarsi il reato di apologia di fascismo, e quando no. «L’apologia del fascismo, per assumere carattere di reato, deve consistere non in una semplice difesa elogiativa, ma in una esaltazione tale da potere condurre alla riorganizzazione del partito fascista, cioè in una istigazione indiretta a commettere un fatto rivolto alla detta riorganizzazione e a tal fine idoneo ed efficiente». Quindi, per intenderci, le manifestazioni elogiative o nostalgiche, finanche la vendita di statuette e cimeli raffiguranti il Duce o i simboli del fascismo, non costituiscono di per sé una minaccia alla democrazia, e infatti non sono perseguiti.

Che in Italia esistano persone convinte che si stesse meglio durante il fascismo non si può impedire per legge. Che in Italia esistano persone che si augurano il ritorno a un regime analogo a quello fascista non si può impedire per legge. Che queste persone si associno per riformare tale partito e istituire un regime antidemocratico è già vietato dalla legge, e dunque non c’è bisogno di licenziare un’altra inutile norma. Peraltro, come ricorda Fabio Martini su La Stampa, fu lo stesso Palmiro Togliatti, segretario del Pci, a chiedere all’assemblea costituente di “andarci piano” con i reati d’opinione, prevedendo con lungimiranza che impedire di avere un’opinione oggi è il punto di partenza per legittimare che domani qualcuno si senta autorizzato a impedirne un’altra, e poi un’altra ancora, ecc. «Togliatti chiese di “non formulare un articolo che possa fornire pretesto a misure antidemocratiche, prestandosi ad interpretazioni diverse”. Spiegando: “Se in Italia nascesse domani movimento nuovo, anarchico, lo si dovrebbe combattere sul terreno della competizione politica democratica, convincendo gli aderenti al movimento della falsità delle loro idee, ma non si potrà negargli il diritto di esistere e di svilupparsi, solo perché si rifiutano alcuni dei loro principî”. E propose di circoscrivere il divieto ad una fattispecie molto precisa: la ricostituzione del partito fascista, ma quello che “prese corpo in Italia dal 1919 fino al 25 luglio 1943”».

Compito della politica è confrontarsi sul piano delle idee. Cambiare le regole per impedire che qualcuno possa esprimere la propria opinione (per quanto diversa dalla propria e ampiamente condannata dalla Storia) è un segno di debolezza e di poca lungimiranza. Difetti che, per fortuna, i padri costituenti dimostrarono di non avere, nonostante si discutesse del futuro della Repubblica mentre questa era ancora un cumulo di macerie.