Nella lotta alla disoccupazione, c’è un elemento che dovrebbe essere preso in considerazione dai governi all’interno delle proprie politiche del lavoro: il programma Erasmus. Una ricerca condotta dalla Commissione europea, “The Erasmus Impact Study”, studia gli effetti della mobilità sulle competenze e livelli di impiego degli studenti, con conclusioni molto incoraggianti. Jacopo Ottaviani su Internazionale ha estratto dal documento (che risale al 2014) alcuni grafici che mostrano come gli studenti che hanno effettuato un’esperienza di studio presso atenei al di fuori del proprio Paese acquisiscano vantaggi di vario tipo rispetto ai propri colleghi “sedentari”.
Lo studio, il più ampio mai condotto su questo tema, con quasi 80mila partecipanti tra cui studenti e imprese, mostra come il tasso di disoccupazione di lunga durata (5 anni dopo la laurea) sia dimezzato per i giovani che si formano anche all’estero. Dal punto di vista del tempo necessario a trovare un lavoro, per gli studenti Erasmus l’attesa è più breve: «Circa i tre quarti di coloro che si laureano in Europa trovano un primo impiego entro tre mesi dalla laurea; però chi fa l’Erasmus, a un anno dalla laurea, ha la metà delle possibilità di essere disoccupato rispetto a chi non lo fa». Il contatto con l’estero è una risorsa che mantiene la propria utilità anche dopo il percorso di studi, tanto che il 69 per cento degli Erasmus trova un lavoro con caratteristiche di internazionalità, dal punto di vista di viaggi, impieghi fuori sede, tipo di clientela, colleghi, o addirittura trasferimenti stabili, contro il 64 per cento dei non Erasmus. Non solo elementi oggettivi: a livello di personalità, gli studenti con esperienze all’estero percepiscono un miglioramento nell’abilità di risolvere problemi, apertura mentale, capacità di prendere decisioni, conoscenza di se stessi, curiosità e fiducia in sé stessi. In generale migliora la capacità di creare buoni rapporti lavorativi e interpersonali.
Dall’esperienza escono cittadini più europei e meno legati al Paese di provenienza. La percentuale di chi sente un forte legame con la propria città è più alta per chi va all’estero (72 contro 70 per cento), mentre tende a farsi più debole quello col proprio Paese (74 contro 77 per cento). La più grande differenza di percentuale si ha in chi sente un forte legame con l’Europa: l’82 per cento degli studenti Erasmus contro il 66 degli “stanziali”. «In un contesto europeo segnato da livelli inaccettabili di disoccupazione giovanile – ha dichiarato Androulla Vassiliou, Commissaria per l’Istruzione, la cultura, il multilinguismo e la gioventù – i risultati dello studio di impatto su Erasmus sono estremamente significativi. Il messaggio è chiaro: chi studia o si forma all’estero migliora le proprie prospettive lavorative».
Spesso il periodo di studio all’estero si trasforma in possibilità di lavoro, visto che «a più di un tirocinante Erasmus su tre viene offerto un posto nell’azienda dove si è svolto il tirocinio». Per molti quindi l’idea di stabilirsi all’estero diventa piuttosto verosimile, visto che «Il 93 per cento degli studenti con esperienza internazionale può concepire di vivere all’estero nel futuro, per chi è rimasto nello stesso paese durante gli studi questa percentuale scende al 73 per cento». L’Erasmus potrebbe quindi essere un’ottima cura per i proverbiali “mammoni” italiani, ma anche fornire una chiave di lettura dei processi migratori a cui stiamo assistendo e ai quali ci sentiamo così impreparati. Oltre a staccarsi dal cordone ombelicale, si tratta di un’occasione in cui stabilire nuove relazioni, e quindi magari creare un giorno un nuovo nucleo familiare: «In base a questi dati, la Commissione stima che dal 1987 in poi siano nati circa un milione di bambini figli di coppie Erasmus».
Da qui al 2020, «il nuovo programma Erasmus+ darà l’opportunità di andare all’estero a 4 milioni di persone, tra cui 2 milioni di studenti e 300mila docenti dell’istruzione superiore. Inoltre, il programma sovvenzionerà 135mila scambi di studenti e personale con Paesi partner non europei».
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