A molti sarà capitato di accorgersi che, col passare degli anni, il tempo sembra accorciarsi. Si può pensare che questa sensazione sia dovuta al fatto al crescere delle responsabilità e delle cose da fare: il tempo sembrerebbe sfuggire perché non riusciamo a stargli dietro, ricoperti le scadenze e impegni. Sembra invece, secondo diversi esperti, che il fenomeno sia dovuto al modo in cui il nostro cervello elabora e manda a memoria le nuove esperienze. Capita per esempio, quando si stacca dopo un lungo periodo di lavoro per concedersi qualche giorno di vacanza, che tale pausa abbia una durata (percepita) enorme rispetto alle settimane che la precedono e la seguono.
Non appena interrompiamo la routine, il tempo sembra dilatarsi e le giornate si allungano, se le riempiamo di esperienze nuove, per esempio un viaggio in un luogo in cui non siamo mai stati. Se poi però in quella vacanza ci assestiamo su una nuova routine, dopo pochi giorni la sensazione di dilatazione svanisce, e di nuovo i giorni prendono a scorrere veloci. Succede quando si torna in vacanza sempre nello stesso luogo, in cui si fanno sempre più o meno le stesse cose di anno in anno. Dopo poco tempo ci troviamo in nuovi meccanismi, non più di lavoro ma di vacanza, e in men che non si dica c’è da rifare i bagagli, magari rimpiangendo di non aver fatto questa o quella gita che ci si ripromette di fare da anni. Potremmo continuare con infiniti esempi, ma probabilmente chiunque stia leggendo si è trovato prima o poi a provare sensazioni simili. Talvolta l’osservazione che si fa è che “da piccoli un anno sembrava un tempo infinito”, mentre col passare del tempo (spesso dopo la quarantina) i mesi e le stagioni si comprimono fortemente. Cosa succede dunque al nostro cervello una volta raggiunta “la mezza età”? La memoria comincia già a vacillare per una questione di invecchiamento? Niente affatto.
Dipende tutto dal modo in cui “nutriamo” la nostra vita di esperienze. Da piccoli ogni cosa è una scoperta, capita molto spesso di fare qualcosa “per la prima volta”, quindi il nostro cervello è completamente focalizzato sul momento presente, tutta l’attività cerebrale è dedicata ad assaporare al massimo ciò che sta succedendo (ci sarebbe da approfondire come mai non riusciamo a ricordare i primi mesi e anni di vita, ma è un’altra storia). Magari nel momento stesso in cui l’evento accade, soprattutto se si tratta di un’esperienza piacevole, la sensazione sarà di compressione temporale. È sempre troppo presto quando si chiude un’esperienza piacevole. Ma poi il nostro cervello ci “ricompensa” ingigantendo enormemente il ricordo di quei momenti, dando loro uno spazio e una percezione temporale molto più ampi di ciò che sono stati realmente.
È molto frequente che, dopo il percorso di studi e dopo un certo numero di anni di lavoro, ci si assesti su una vita che prevede più elementi di routine, in cui le esperienze davvero nuove si riducono di numero, e in cui ogni giorno è più o meno uguale all’altro. Ed ecco il perché del cambio di percezione dopo i 40 anni. Si tratta forse di un momento della vita in cui si sono raggiunti determinati traguardi, in cui l’attenzione verso ciò che si fa tende a calare, perché ormai gli automatismi permettono di mettere in pratica più o meno tutto ciò che una giornata tipo richiede.
Obiettivamente, non è una prospettiva piacevole quella di subire passivamente questa accelerazione temporale, e ci sono dunque due modi per contrastare questa deriva: sforzarsi di aumentare il numero di esperienze nuove ed entusiasmanti che riempiono le giornate, oppure provare a concentrarsi maggiormente sul momento presente. La prima è ovviamente la soluzione a cui tutti istintivamente aspireremmo: riempire la nostra vita di viaggi, conoscenze, persone e culture sempre nuove è una prospettiva molto attraente. Ma forse, in un certo senso, potrebbe essere una visione perfino superficiale delle cose. Il secondo approccio, che si rifà sostanzialmente alle pratiche di meditazione ormai diffuse in tutto il mondo (ce ne sono di più legate alla sfera spirituale-religiosa oppure di completamente “laiche”, lasciamo a voi l’esplorazione), sostiene che con una pratica quotidiana (anche breve) possiamo abituare la nostra mente a essere più presente, a non perdersi tra ciò che è stato prima e ciò che sarà dopo, scollegandosi completamente da ciò che sta succedendo in quel momento.
Non vogliamo citare qui un metodo particolare di meditazione, perché ormai il panorama si è talmente allargato che rischieremmo di fare pubblicità a qualcuno. Il punto è però che, come scrive Oliver Burkeman, meditare allunga la vita. Non in senso letterale, ma proprio dal punto di vista che stiamo portando avanti dall’inizio di questo articolo. Non più giornate compresse e tutte uguali, non più la memoria che si accorcia e non ci fa capire se a Parigi siamo stati l’anno scorso o cinque anni fa. Invece di vivere nell’attesa di eventi episodici che spezzino la routine, la possibilità è di dare un senso a quest’ultima, vivendola più pienamente, il che la renderà anche più interessante. Lasciamo la conclusione proprio a Burkeman: «Dopotutto, non è un po’ strano desiderare di avere più anni a disposizione quando non stiamo neanche vivendo quelli che abbiamo?».
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