Finanziario, industriale, di Stato. Questi i tre tipi di capitalismo che convivono attualmente nel nostro sistema, secondo la suddivisione sintetizzata ieri da Guido Rossi sul Sole 24 Ore. Il primo appare quello più in difficoltà, avendo trascinato le economie mondiali vicino al collasso, seguendo la via della speculazione più spregiudicata. Il secondo sta subendo le conseguenze di questa dinamica, da quando la crisi da finanziaria è diventata economica. Il terzo, quello applicato in stati come la Cina, dove c’è una forma di controllo dell’iniziativa economica da parte del Partito, fa volare gli indici di sviluppo del Paese, a fronte di una tendenza inversa per i diritti dei lavoratori.

Queste tre forme di capitalismo, fa notare Rossi, vanno somigliandosi, portando con sé soprattutto minacce: «L’avvicinamento fra i vari capitalismi, sia pur nelle difformi e financo opposte strutture di controllo, sta nel privilegio al di sopra di ogni normativa, delle grandi Corporations, sia americane, quando “too big to fail”, o italiane, quando considerate “di sistema” o “campioni nazionali” e le varie Corporations di Stato cinesi. Quale la differenza ad esempio tra Goldman Sachs e le varie Banks of China?».

Il capitalismo, da quando esiste, ha come presupposto il superamento delle disuguaglianze per mezzo del mercato. È contrario al privilegio per natura. Eppure, l’intervento dello Stato in economia ha periodicamente determinato fenomeni di questo tipo, soprattutto in momenti di crisi come quello attuale. «Non v’è dubbio allora -prosegue l’articolo di Guido Rossi- che per quel che riguarda l’attuale per molti versi innovativa politica italiana, le pur corrette “liberalizzazioni” debbono essere accompagnate ad organiche visioni dei diritti dei cittadini. L’abolizione dei privilegi è certamente un fatto di grande democrazia, non a caso partito dalla Rivoluzione francese e dal Terrore, ma in questo momento deve assurgere a priorità assoluta per evitare che l’intero mondo si autodistrugga privilegiando falsi miti ed esasperando le disuguaglianze».

Insomma, giusto puntare sulla deregolamentazione per favorire lo sviluppo dell’economia e alimentare il prodotto interno lordo e l’occupazione. Ma se il baricentro si sposta verso l’economia, allora anche i diritti del lavoratore devono consentire pari opportunità di partecipazione a questa partita. Per essere più chiari, se la libera concorrenza porta a un mercato del lavoro più flessibile, ai lavoratori deve comunque essere dato accesso a una serie di ammortizzatori sociali che diano la stabilità necessaria ad affrontare un mercato in cui più alta è la possibilità di trovarsi senza stipendio da un giorno all’altro. In maniera proporzionata al reddito e alla situazione patrimoniale, che quindi vanno dichiarate, controllate, aggiornate, documentate.

Passateci questa riflessione, che non vuole avere alcun colore politico (come sempre del resto), bensì un taglio sociale, nella consapevolezza che comunque la vediamo, viviamo in (meglio: siamo) una comunità. Lo Stato, che costa molto mantenere (e qui si potrebbero avviare altri ragionamenti), deve garantire alcuni servizi essenziali. E deve controllare che tutti abbiano le stesse possibilità di competere all’interno del mercato, come imprenditori e come lavoratori. Vigilare affinché in questo gioco, a rimanere stritolati non siano i diritti del cittadino. Non facciamoci prendere dalla smania di riforma, se poi, storpiando l’adagio del principe di Salina, ciò che ci troviamo per le mani è un mondo in cui tutto cambia, affinché il mercato resti uguale.