Pubblichiamo un articolo dello scrittore Nicola Lagioia, uscito su Repubblica, che offre il suo punto di vista su un fenomeno emerso negli ultimi mesi: i libri in versione “distillata”. Una casa editrice ha pensato di ridurre all’osso alcuni libri, eliminando centinaia di pagine ritenute non fondamentali per seguire l’intreccio, in modo che il lettore possa avere accesso diretto solo alle parti più significative dell’opera, con ovvio risparmio di tempo. Operazione giusta o sbagliata? Tutto dipende da cosa cerchiamo nella lettura.
Cosa cerchiamo davvero quando ci mettiamo a scrivere o a leggere un romanzo? Oltre alle buone storie (di cui il cinema abbonda) e agli intrecci mozzafiato (le serie tv ci stanno dando ottime lezioni) esiste uno “specifico letterario” che nessun’altra forma di racconto riesce a esprimere. Pensate ad Achab, Emma Bovary, Zeno Cosini, Anna Karenina. Tutti questi personaggi ci raccontano qualcosa di altrimenti intestimoniabile sulla condizione umana, e lo fanno in un modo così profondo, destabilizzante, commovente che senza di loro la nostra mappa interiore (ciò che ci disponiamo a scoprire su noi stessi quando ci infiliamo sotto le coperte con un libro in mano) sarebbe diversa.
Per arrivare a parlarci con una tale intimità, i personaggi letterari hanno bisogno a volte di raccontarsi per centinaia di pagine, passando per digressioni, secche, apparenti zone morte che tutte insieme fanno scattare però il prodigio grazie a cui i libri, nonostante tutto, sono ancora circondati di magia.
Era proprio necessario che Proust scrivesse tutte quelle pagine? E che Virginia Woolf spezzasse le vicende dei protagonisti di Gita al faro con una parte (la seconda) in cui non sembra accadere molto? Sì, e ancora sì. Grazie a meccanismi che, stando a un manuale di sceneggiatura, lascerebbero disoccupati i loro artefici, questi romanzi portano alla luce aspetti dell’esperienza umana che nessuna ottimizzazione costi/benefici fondata solo sull’intrattenimento farebbe brillare a quel modo.
Provo a fare un esempio. Nei Fratelli Karamazov, dopo la presentazione di decine di personaggi, e un numero di vicende sufficienti a confondere il più navigato dei lettori, arriva una scena che chi ha esperienza di questo libro non può dimenticare. È quando Ivan, discutendo con suo fratello Alëša, si domanda se il concetto di Dio sia conciliabile con la sofferenza dei bambini. «Immagina», dice, «di essere tu a edificare il destino umano con lo scopo di rendere felici gli uomini, di concedere loro, alla fine, pace e serenità, e che per fare questo sia necessario far soffrire anche una sola creaturina […] e sulle sue lacrime invendicate erigere quell’edificio. Acconsentiresti a esserne l’artefice a queste condizioni?». Ivan un Dio del genere non può accettarlo: se il prezzo per accedere alla verità prevede la sofferenza anche di un solo innocente, lui non vede l’ora di “restituire il biglietto d’entrata”.
È un brano da brividi. A cui ne segue un altro di pari livello, quello sul Grande Inquisitore. Poi il romanzo torna sui suoi binari “ordinari”, e si dovranno attendere molte pagine per ritrovare vette simili.
Qualcuno potrebbe obiettare: ma non sarebbe stato meglio ridurre i Karamazov ai suoi momenti più significativi (inquadrati in una narrazione ridotta all’osso) risparmiandoci una lettura tanto lunga e faticosa? La risposta è no, perché le digressioni, gli sproloqui, persino il frastuono di cui è pieno il romanzo di Dostoevskij congiurano affinché scene come quelle di cui abbiamo parlato acquistino una forza che altrimenti non avrebbero.
E certo: ci sono libri pieni di sproloqui e digressioni completamente inutili, che affossano anziché far decollare l’intero progetto.
Da autore di romanzi, mi faccio anch’io delle domande prima di scrivere una scena in apparenza poco funzionale allo sviluppo della storia. Sono per così dire consapevole del rischio. Credo però che avanzare sentendo sul collo anche l’alito del fallimento – specie in un mondo che ammette sempre meno errori – sia un lusso che la letteratura debba concedersi per darsi la possibilità di non fallire nel compito che solo lei può svolgere.
L’alternativa è assomigliare al farmacista di Bolaño, che in 2666 (romanzo lunghissimo e capolavoro) dice di preferire Bartleby a Moby Dick, tanto da meritarsi il biasimo del narratore: «neppure i farmacisti colti osano più cimentarsi con le grandi opere, imperfette, torrenziali, in grado di aprire le vie dell’ignoto. Scelgono gli esercizi perfetti dei grandi maestri. Vogliono vederli tirare di scherma in allenamento, ma non vogliono saperne dei combattimenti veri e propri, quando i grandi maestri lottano contro quello che ci spaventa tutti, quello che atterrisce e sgomenta».
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