Se il governo cercava visibilità per la sua iniziativa denominata #FertilityDay, è riuscito nell’intento. La sequela di critiche e commenti piccati che si sono scatenati da un paio di giorni a questa parte contro l’iniziativa di promozione della maternità ha dato grande notorietà alla campagna, demolendone però il messaggio. Ci uniamo a questo coro, senza accanimento, per fare notare come, da qualsiasi punto la si voglia guardare, quello del Ministero della salute sia un inciampo comunicativo piuttosto evidente. Innanzitutto avremmo qualcosa da dire sul nome della giornata (che si celebrerà il 22 settembre). Sorvoliamo sull’utilizzo dell’inglese, ormai imprescindibile per dare spinta a concetti che non hanno forza. Più grave è il problema relativo alla scelta della parola “fertility”: perché usare un termine che celebra la fecondità, cioè una condizione di partenza della donna e dell’uomo, e non la maternità (o la genitorialità), che è il frutto di una scelta?

L’infertilità (femminile e maschile) è un problema che affligge la salute di molte persone, perché dunque infierire su una condizione fisica e psicologica molto difficile con una parola che vi fa direttamente riferimento? Una delle cartoline pubblicate sul sito ufficiale della campagna (e poi sparite assieme all’intero sito internet, che si trovava qui) recitava come slogan «La fertilità è un bene comune». Purtroppo non è così, nel senso che non è un “bene” equamente distribuito tra tutti gli individui. Al contempo, non è nemmeno “comune”, bensì strettamente e intimamente individuale, e ognuno nella nostra società deve essere libero di gestirlo come meglio crede. Il fatto di ritenerlo un qualcosa di “comune” sembra alludere alla necessità di mettere il proprio corpo al servizio di una causa superiore, quella dello Stato, cosa che fa a pugni con le più essenziali conquiste della società moderna in tema di diritti inalienabili. Qualcuno ha criticato il fatto che il ministero cerchi di combattere i bassi indici di natalità che caratterizzano il nostro Paese ormai da tempo (una tendenza che si registra dagli anni ’70 in tutta Europa, ma che in Italia è più pronunciata, come si può vedere in questo grafico) semplicemente dicendo «Fate più figli!». Un po’ come se si cercasse di combattere il disagio psichico dicendo «Su con la vita!».

Al di là delle battute, il #FertilityDay si inserisce in un più ampio Piano nazionale per la fertilità, che ha una struttura più articolata e si concentra su due ordini di obiettivi: formativi-informativi e sanitario-assistenziali. I primi rivolti a cittadini e operatori sanitari, con corsi specifici di formazione e campagne d’informazione. I secondi prevedono iniziative di assistenza psicologica e sanitaria alla genitorialità. Ciò che manca del tutto nel Piano, però, è la previsione di interventi diretti e indiretti per favorire le famiglie che decidono di avere bambini. Non si parla di incentivi economici che possano aiutare a coprire le spese connesse all’allevamento di un figlio. E soprattutto non si parla di impegni volti a creare un ambiente favorevole alla gestione di una famiglia che si allarga. La disoccupazione giovanile e la scarsità di asili pubblici distribuiti sul territorio sono due elementi che abbattono enormemente l’attitudine a fare figli delle famiglie italiane. Suona dunque quasi offensivo leggere slogan come «Non aspettare la cicogna», «La bellezza non ha età, la fertilità sì» (con tanto di ragazza sorridente che regge in mano una clessidra), «Genitori giovani, il modo migliore per essere creativi», e via così. Inutile fare leva sulle questioni fisiologiche sottolineando che, soprattutto per la donna, l’età ha un peso importante sulla sua fertilità e quindi sul successo della gravidanza, se poi non si crea attorno un sistema economico-sociale che permetta a ogni coppia di allevare i propri figli senza troppe ansie.

Di tutta l’iniziativa si può forse salvare il tentativo culturale di ribaltare la tendenza generale ad avere pochi figli, soprattutto tra chi vive in città. Ma è un tratto comune a tutta l’Europa, come si è detto, dunque suona un po’ ingenuo sperare di cambiare l’attitudine delle persone cercando di cambiare loro la testa, senza che cambino gli stili di vita. Insomma non ce ne vogliano dal Ministero, ma forse è meglio spostare decisamente il tiro, per evitare altri imbarazzi (anche se ormai il danno è fatto, se ne sono accorti anche all’estero).