Come abbiamo scritto diverse volte, l’impatto della pandemia di COVID-19 si è esteso ben oltre quanti ne sono stati direttamente colpiti. Le conseguenze dell’emergenza sanitaria hanno infatti compromesso la salute di tante persone che, nei lunghi mesi in cui le strutture e il personale sanitari di tutta Italia si dedicavano ai pazienti contagiati dal coronavirus, avrebbero dovuto subire interventi “non urgenti” o fare esami di controllo.
Perché hanno chiuso le sale operatorie
Un elemento che forse non è stato sufficientemente sottolineato nel dibattito mediatico, è che la saturazione delle terapie intensive (occupate in alta percentuale da “pazienti covid” solo fino a pochi mesi fa) ha una ricaduta su tutto il sistema sanitario. Le sale operatorie sono infatti costrette a fermarsi se non c’è la garanzia che, in caso di complicanze durante gli interventi, nei reparti di terapia intensiva siano disponibili posti, macchinari e personale pronti ad accogliere i pazienti. È lo stesso motivo per cui nei mesi scorsi la richiesta di sangue da parte degli ospedali ha avuto un calo: con il blocco degli interventi, sono state necessarie molte meno trasfusioni. Questo è un grosso problema per associazioni come la nostra, che fondano la propria azione sulla programmazione. Ed è anche il motivo per cui alcuni donatori e donatrici hanno atteso più del previsto prima di essere contattati per una nuova donazione, dopo lo scadere del periodo di riposo. Ecco perché è ancora più importante, ora che le sale operatorie hanno ripreso le attività, farsi trovare pronti (oltre che per il vaccino) alla chiamata di Avis.
I pazienti dimenticati
Grazie a un’inchiesta di Riccardo Saporiti, intitolata “I pazienti dimenticati“, è possibile avere un’idea dell’impatto che la situazione descritta in apertura ha avuto sulla salute delle persone. Innanzitutto si spiega che, con le linee guida firmate dal Ministero della salute il 16 marzo 2020, si stabiliva di «rinviare i ricoveri elettivi non oncologici con classe di priorità B e C (ovvero da eseguire rispettivamente entro 60 e 180 giorni) e quelli elettivi di classe D (senza attesa massima definita e legati a casi clinici che non causano alcun dolore, disfunzione o disabilità) e di procrastinare le prestazioni ambulatoriali differibili (30 giorni) e programmabili (90/120 giorni)».
Calano interventi chirurgici, visite ed esami
L’inchiesta ha previsto l’invio di una richiesta di accesso ai dati (Foia) a circa 200 aziende sanitarie e ospedaliere. I dati sono stati poi confrontati con l’incidenza della diffusione del contagio, per stabilire se c’era una correlazione. La circolare del ministero non menzionava l’incidenza dei contagi come fattore discriminante per il rinvio degli interventi. Il che colpisce perché vuol dire che gli interventi chirurgici (ma vale anche per esami e visite di controllo) sono stati rinviati quasi del tutto in luoghi che stavano vivendo situazioni decisamente diverse dal punto di vista dei contagi. «L’ospedale di Oglio Po – si legge nell’inchiesta – in provincia di Cremona, ha ridotto del 97,6% gli interventi chirurgici, in un territorio con un’incidenza di 1.636 casi ogni 100mila abitanti durante il periodo considerato. Il don Tonino Bello di Molfetta, in provincia di Bari, ha ridotto gli interventi di una percentuale analoga (97,3%), ma da queste parti i positivi al Sars-CoV-2 sono stati solo 107 ogni 100mila abitanti, appena il 6% di quelli visti nel cremonese».
I pazienti oncologici
Per quanto riguarda i pazienti oncologici, bisogna distinguere tra terapie già in corso ed esami di prevenzione. Se le prime non hanno subito variazioni significative nelle strutture considerate, cosa che vale anche per le visite di follow-up, a calare sono stati «gli screening oncologici per il cancro alla mammella e al colon retto […]. Una circostanza che, secondo un già citato studio uscito su Lancet nel luglio 2020, potrebbe tradursi in un incremento dei decessi per cancro al seno a 5 anni dalla diagnosi compreso tra il 7,9 ed il 9,6% ed in un aumento delle morti per il cancro del colon retto, sempre a 5 anni dalla diagnosi, compreso tra il 5,8 ed il 6%».
Saranno dunque da valutare gli effetti a lungo termine di questa riduzione: «“Lo stop dello screening si tradurrà in un incremento delle diagnosi tardive. Il tumore progredisce e se la diagnosi non viene effettuata allo stadio 1, ma a quelli successivi, la probabilità di cura si riduce”, spiega Lucia Del Mastro, professore associato di Oncologia all’Università di Genova e Direttore della Breast Unit del Policlinico San Martino sempre di Genova. Ovviamente, non è un discorso generalizzato. Per quanto riguarda il tumore della mammella, “abbiamo dei sottotipi meno aggressivi, che rappresentano il 70% dei casi, e per i quali un ritardo diagnostico di 4-5 mesi ha uno scarso impatto. Ci sono invece sottotipi biologicamente molto aggressivi, come il triplo negativo in cui fino al 99% delle cellule si riproduce, in cui un ritardo nella diagnosi si traduce in una crescita importante del tumore”».
Nella pagina del progetto relativa alla Lombardia non troverete l’ASST Ovest Milanese, perché questa ha negato l’accesso ai dati, perché avrebbe richiesto «l’elaborazione di una mole considerevole di dati, allo stato non aggregati, per reperire i quali sarebbe necessario sottrarre un contingente di personale amministrativo dalle proprie funzioni, per destinarlo sine die ad un’attività di ricerca ed elaborazione di dati conservati in modo cartaceo».
Può funzionare ancora meglio
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