Una comunicazione corretta e completa dovrebbe essere alla base di qualsiasi sodalizio, dal più semplice al più complesso. Che si tratti di un piccolo gruppo di persone unite da una causa comune, fino ad arrivare alla gestione politica di uno Stato o a organismi sovranazionali, il discorso non cambia. Se non ci sono informazioni condivise e valide per tutti, non è possibile che quel corpo sociale possa fare consapevolmente delle scelte. Purtroppo (o proprio per questo), la comunicazione diventa spesso uno strumento utilizzato da chi ha il monopolio dell’informazione per non far sapere alla base ciò che sta realmente succedendo. Di più, talvolta si assiste a una vera e propria strategia di disinformazione secondo cui si confezionano verità diverse a seconda degli interlocutori.
Viene in mente l’esempio delle battaglie a suon di “zero virgola” che stanno riguardando le previsioni di crescita del pil in questi mesi. L’Ocse parla di +0,8 per cento, l’Istat di +0,7, il governo di +0,9, l’agenzia di rating Fitch prevede anch’essa un +0,7. Tutto per dire che l’Italia migliora, che l’Italia riparte, che è la volta buona. Una speranza cieca che si scontrerà presto con una realtà molto più dura, perché non sono gli “zero virgola” a rappresentare il segno di una vera ripresa, e il nostro Paese è ancora ben lontano dalla palude della crisi. Intanto però si dà il contentino di un’informazione positiva, c’è uno “zero virgola” di probabilità che le cose stiano per cambiare, aggrappiamoci a quello: ma è un appiglio fragile.
È un’anomalia che non riguarda solo il Paese come sistema, ma si riscontra a più livelli, anche nel mondo associativo. Come facevamo qualche giorno fa, anche stavolta vi invitiamo a fare un confronto con la vostra esperienza personale. A molti sarà capitato di trovarsi a vivere una vicenda cercando di analizzarla e valutarla con le informazioni a sua disposizione. All’improvviso, quando l’immagine sembra chiara, ci si accorge che le lenti attraverso cui la si sta guardando sono deformanti, che le cose non stanno davvero come si crede, che qualcuno ci ha volutamente ingannato per tenerci buoni. Può riguardare la stabilità economica di un Paese (pensiamo al default argentino del 2001), ma anche lo stato di salute di un’azienda o associazione, quando dall’alto si continua a rassicurare la base dicendo che «va tutto bene, non c’è da preoccuparsi, sono tempi difficili ma passeranno, magari sarà necessario qualche sacrificio ma nessuno ci rimetterà». Poi “volano le teste”, come si dice in gergo. Si scoperchia il pentolone e si scopre che le cose stavano molto peggio, e per renderle presentabili si sono fatte scelte che hanno compromesso le basi dell’organizzazione. Ma quando si viene a sapere è tardi.
Ce la si può prendere con chi sta in alto, con chi mente o omette parti di verità, ma è anche colpa di chi riceve l’informazione “drogata” e non la sa riconoscere. La ricezione di un dato dovrebbe portare a una reazione – se non altro la richiesta della fonte di quel dato o la sua verifica – che però spesso manca. Ragionare con la propria testa è possibile solo in presenza di questo automatismo, di questa ricezione proattiva delle informazioni, altrimenti si torna appesi al fragile sostegno di una generica speranza. Questa gestione della comunicazione è un’anomalia, la peggiore che si possa immaginare, per qualunque tipo di organizzazione.
Se non c’è un’informazione condivisa non c’è vero dialogo. Se manca la discussione interna, si crea una frattura tra base e vertici, che porta questi ultimi a decidere per tutti, bypassando la collegialità delle scelte. La strategia, mai passata di moda, è quella di dividere per comandare. Col monopolio dell’informazione si possono creare tante diverse versioni della realtà, a seconda dell’interlocutore e di ciò che vuole sentirsi dire. «Le cose stanno così purtroppo, ma lasciami fare e vedrò di avere un occhio di riguardo per te e la tua fazione». Si creano così ulteriori fratture, si alimentano gli egoismi, si favorisce la nascita di “correnti”. Soprattutto, si abbassa la qualità degli obiettivi e si mina alla base l’unità d’intenti perché ognuno, quando si mette male, pensa soprattutto alla propria sopravvivenza. Ma a quel punto lo spirito comunitario è già svanito.
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