L’estate scorsa provammo a descrivere uno dei tic diffusi nelle conversazioni il cui oggetto riguardi in qualche modo lo Stato e i suoi meccanismi: «Siamo in Italia…», come a dire che quindi non si riesce a concludere nulla, va da sé. Un altro cliché contro il quale vogliamo batterci è quello che Giovanni Orsina sulla Stampa del 5 aprile definisce “indignazione cosmica”. Ovviamente non ce la prendiamo qui con l’indignazione tout court. Ci mancherebbe: l’indignazione è quel sentimento che precede la rabbia e la incanala in pratiche di mobilitazione e resistenza civile che possono portare a riforme anche importanti ed epocali. Prima che si arrivi alla rivoluzione, ossia quello stato emotivo e mentale che fa pensare all’abbattimento delle istituzioni e alla loro sostituzione con un altro modello, l’indignazione è quella sana intenzione di organizzarsi per cambiare le cose “dal di dentro”, senza smantellare uffici e mettere a ferro e fuoco la città, ma senza nemmeno piegarsi accettando le cose come stanno.
Per prendere un esempio celebre, l’indignazione è ciò che ha portato Rosa Parks, afroamericana, a sedersi nel posto riservato ai bianchi su un autobus a Montgomery (Alabama), nel 1955. Da quel gesto nacque un’azione di boicottaggio degli autobus da parte di tutti gli afroamericani della comunità, guidati dall’allora sconosciuto Martin Luther King. Un anno dopo, la pratica della segregazione razziale sui mezzi pubblici fu dichiarata incostituzionale. Questo è il tipo di indignazione che funziona. Ma non siamo negli Stati Uniti e non è il 1955. Siamo in Italia, e da alcuni anni c’è chi marcia sul fatto che comunque i problemi non si possono risolvere, e anche quando vengono risolti (con tutte le imperfezioni che la realtà implica) comunque non va bene e bisogna per forza trovare un lato oscuro, magari un complotto, per cui niente è veramente come dovrebbe. È una predisposizione d’animo, più che un sentimento riferito a fatti o situazioni precise.
«L’indignazione cosmica serve a soddisfare l’indignato, non a migliorare il mondo – scrive Orsina –. Teme il cambiamento, anzi – di che cosa potrebbe più indignarsi se le cause dell’indignazione fossero rimosse? –, e quando mai quello dovesse avvenire, lo riterrà senz’altro insufficiente, cosmetico, ipocrita. L’indignazione cosmica colloca le sue pretese ad altezze siderali: maggiore sarà la distanza fra le cose come sono e come dovrebbero essere, maggiore potrà essere l’indignazione». Insomma è vero che in questo Paese ci sono tanti problemi, ma la reazione non può essere sempre dare la colpa a un nemico esterno, continuando a fare la propria vita lamentandosi che le cose non cambiano mai, oppure andarsene all’estero perché lì le cose funzionano, mica come da noi. Di sicuro al centro e nord Europa le cose funzionano meglio, lo Stato è più efficiente, la corruzione un problema molto meno pesante, le politiche sull’ambiente più avanzate. Ma ci sono differenze storiche, culturali e geografiche che rendono piuttosto sterili molti dei confronti che si fanno.
In Spagna, la parola indignados è stata la parola chiave che ha dato origine a un movimento politico, che poi si è strutturato nel partito politico Podemos, quindi non tutta l’indignazione viene per nuocere, sia chiaro. Quella con cui ce la prendiamo qui è quell’indignazione “da salotto” che permette di fare bella figura con gli amici, quando si può manifestare tutto il proprio risentimento verso tutto e tutti, smuovendo le emozioni più istintive che ci portano a dare credito a chi in quel momento trova il capro espiatorio di tutti problemi.
Quindi, come se ne esce? Ragionando per problemi, analizzando i fatti e cercando di collegarli tra loro in maniera logica e documentata. Seguendo più fonti di informazione, non soffermandosi solo su quelle che continuamente confermano il nostro punto di vista (o il nostro pregiudizio). Prendendosi la responsabilità di contribuire al cambiamento, senza fermarsi a denunciare o aspettando che arrivi “l’uomo solo al comando” a risolvere tutti i problemi. Negli ultimi decenni sembra che l’Italia sia sempre più propensa a quest’ultima soluzione, e non è una buona notizia per il funzionamento dei nostri meccanismi democratici.