L’Islanda, ancora una volta, sembra lì apposta per mettere in imbarazzo le grandi democrazie europee (per non parlare dell’Unione di quelle democrazie). Ieri infatti lassù è entrata in vigore la legge che impone ai datori di lavoro di parificare il salario tra uomini e donne, a parità di mansione. C’è da dire che l’Islanda è un Paese talmente piccolo, rispetto a qualsiasi altro Stato europeo (tolti il Liechtenstein e pochi altri), che va osservato più come “laboratorio politico” che come realtà compiuta da cui prendere esempio. Si tratta di un territorio del tutto peculiare, ma che comunque ci impone di riflettere su tanti traguardi che ancora aspettano di essere raggiunti in Italia. Promesse rimandate a un prossimo futuro che non arriva mai, mentre su troppi temi restiamo un Paese sempre uguale a se stesso nel corso degli anni. Piccola divagazione: guardate questo impressionante elenco di cose che sono cambiate rispetto a 24 anni fa, quando Francesco Totti faceva il suo esordio in serie A. Eppure sono almeno altrettante le cose che sono rimaste uguali (e spesso ci troviamo a parlarne su ZeroNegativo) e su cui si potrebbe fare tanto, se solo ci fosse la volontà.
Sul tema della parità di genere in ambito lavorativo, su OpenPolis è stata pubblicata una serie di articoli. Tra le altre cose si parla delle giunte comunali: la legge 56 del 2014 stabilisce che «Nelle giunte dei comuni con popolazione superiore a 3.000 abitanti, nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura inferiore al 40 per cento, con arrotondamento aritmetico». Apparentemente molto chiara la disposizione, ma in realtà è sorta una giurisprudenza che nel corso degli anni ha permesso di aggirare la norma. In particolare, una sentenza del Consiglio di Stato ha stabilito due principi, apparentemente in contraddizione. Da un lato si dice che «L’applicazione della prescrizione contenuta [nella legge] non può […] in alcun modo determinare un’interruzione dell’esercizio delle funzioni politico-amministrative ovvero provocare un ostacolo al loro concreto ed effettivo esplicitarsi». Dunque, per evitare l’interruzione delle attività dell’amministrazione, si può contravvenire all’obbligo di garantire le percentuali previste dalla legge. Più oltre, la sentenza stabilisce però che se è impossibile nominare un numero sufficiente di donne (parliamo al femminile perché attualmente il problema va in quella direzione, ma sarebbe lo stesso a parti invertite), tale impossibilità «deve essere adeguatamente provata e […] pertanto si risolve nella necessità di un’accurata e approfondita istruttoria ed in un’altrettanto adeguata e puntuale motivazione del provvedimento sindacale di nomina degli assessori che quella percentuale di rappresentanza non riesca a rispettare». In qualche modo, i sindaci dovranno individuare e “provare” gli ostacoli che hanno impedito loro di rispettare le quote. Come, sarà interessante scoprirlo.
Obblighi di questo tipo sono stati introdotti nel 2011 (dalla cosiddetta legge Golfo-Mosca) anche per i consigli di amministrazione delle società quotate in borsa. Una legge con data di scadenza, visto che cesserà di avere effetto (a meno di interventi parlamentari) nel 2023. In generale troviamo sensato che il legislatore abbia voluto pensare alla compensazione di genere come a un regime transitorio, nella speranza che la questione a un certo punto smetta di essere un problema. Non è nemmeno sbagliato però mantenere in via definitiva il rapporto 40-60 (valido in entrambe le direzioni), in modo da garantire comunque una buona distribuzione. Negli ultimi anni le donne in ruoli di comando stanno dunque aumentando, e aumenteranno man mano che scatteranno i rinnovi dei cda di varie aziende. La differenza di genere resta comunque evidente, visto che «le manager in senso stretto sono il 54,1 per cento delle donne, contro il 76,5 per cento degli uomini». Interessante anche un dato qualitativo, ossia il fatto che le amministratrici siano «mediamente più giovani, più istruite e con minori legami di parentela nella società in cui ricoprono il ruolo». Altro dato, stavolta meno incoraggiante, è che seppure aumentano i nomi al femminile nei ruoli di comando, spesso tali nomi si ripetono da un’azienda all’altra. Mentre infatti il fenomeno degli interlockers (persone con più incarichi contemporaneamente) è in calo tra gli uomini, è invece in forte aumento tra le donne. «Le amministratrici titolari di poltrone in diverse aziende erano 76 nel 2013, il 13,72 per cento degli interlockers totali, mentre nel 2016 se ne contano già 206 e arrivano al 41,68 per cento del totale».
C’è ancora tanto lavoro da fare, sia sulle quote sia sulla parità di reddito (problema cui non abbiamo accennato per l’Italia, ma che persiste). Le leggi degli ultimi anni hanno portato qualche miglioramento, ma i tentativi sono ancora troppo timidi. Ah, com’è lontana l’Islanda.
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