Chiamarla “fuga dei cervelli” ha un’accezione negativa da cui prendiamo subito le distanze. La formula è ormai cristallizzata sulle colonne della stampa come nelle espressioni dei politici e della gente comune, ma a nostro avviso il suo utilizzo ha un retrogusto acidulo che sarebbe giusto togliere. Un’esperienza all’estero, anche di anni, non ha in sé niente di negativo, né per chi parte, né per chi resta. Non è detto che si tratti di una fuga, bensì di una scelta ponderata. Così come non è detto che chi decide di restare nel Belpaese sia un amante del dolce far niente. Anzi, le ben note difficoltà nella ricerca di lavoro in Italia sono spesso tra le cause di emigrazione, il che a sua volta può portare a pensare che sia invece chi fa la scelta di partire a cercare vita facile, per poi magari ritrovarsi all’estero a fare i famosi «lavori che gli italiani non vogliono più fare», che abbiamo appaltato alle rigogliose comunità di stranieri residenti nel nostro Paese.
In un articolo sulla piattaforma AgoraVox si cita il testo di una canzone che riassume bene la questione: «Mario Venuti aveva già intuito il fenomeno nel 1999, quando cantava di “ragazzi di buona famiglia che qui non farebbero mai un lavoro degradante, poi vanno a Londra a pulire pavimenti: sembrano esserne contenti” (Il più bravo del reame)». A quanto pare gli italiani sono ancora disposti a fare certi lavori, ma non qui. Come mai? Forse perché con le condizioni di lavoro che abbiamo è difficile tirare avanti facendo il cameriere, pulendo vetrate o come bracciante agricolo. E allora chi ha un gruzzoletto con cui affrontare il viaggio e il primo periodo d’assestamento fa la valigia e parte.
In questo senso risulta esemplare la storia di un giovane triestino, Gabrijel Cernigoi: «“Durante il mio Erasmus in Francia ebbi l’idea di andare a scoprire la viticoltura nell’altro emisfero -ha raccontato-. Così sono partito per l’Australia e sono finito a lavorare in un’azienda agricola a cinque ore d’auto da Perth, sull’Oceano indiano”. Un’esperienza molto faticosa, soprattutto in periodo di vendemmia, ma fruttuosa. E incomparabile all’Italia sotto il profilo economico: “La paga settimanale ondeggiava fra i 900 e i 1.100 euro”. Conclusa quell’esperienza, Gabrijel è tornato a Trieste, dove conduce una piccola osmiza (sorta di locanda dove si consumano e acquistano prodotti tipici, tipica dell’altopiano del Carso, ndr), ma “il biglietto per tornare in Australia a dicembre è già pronto”». Dallo stesso articolo prendiamo un altro esempio, stavolta attinente all’ambito della ricerca: si parla di «Paolo Codega, attualmente in post-dottorato alla Columbia University di New York. Studioso di neuroscienze, dopo il dottorato alla Sissa Codega è andato a vivere negli Usa con la moglie cinque anni fa: “Il gruppo con cui lavoro nel mio laboratorio è quasi completamente composto da non americani -ha detto in collegamento Skype-. In Italia, Sissa (Scuola internazionale di studi superiori, ndr) a parte, è difficile trovare un collega che non sia italiano: la mancanza di risorse investite in ricerca fa sì che non siamo attrattivi per i nostri cervelli e neanche per quelli degli altri”. Eppure la preparazione degli scienziati italiani è apprezzata negli Usa: “Quel che fa rabbia è che lo Stato italiano forma eccellenti ricercatori che poi non riescono a trovare sbocchi”. Per Codega l’idea di tornare in Italia è bella e complicata al contempo: “Mi piacerebbe contribuire al progresso della comunità scientifica italiana, ma in patria le certezze sono poche. Negli Usa il posto fisso non esiste e l’ambiente è molto competitivo, ma gli investimenti sono talmente ampi che è facile trovare nuovi impieghi”».
Storie esemplari, che di sicuro, se ci pensate un attimo, risultano simili a quella di qualche vostro amico o conoscente, se non alla vostra. Soprattutto nel secondo caso viene alla luce una delle più gravi debolezze del sistema italiano, ossia l’incapacità di attrarre professionalità dall’estero. Come anche di richiamare sul territorio i nostri concittadini che, dopo aver arricchito la propria professionalità in altri Paesi, sarebbero uno stimolo vitale allo sviluppo del Paese. Mesi fa si è inceppato il programma denominato “Rientro dei cervelli” avviato dal precedente ministro dell’Istruzione Francesco Profumo. Quattordici ricercatori hanno girato all’attuale ministro Maria Chiara Carrozza una lettera in cui denunciano la trappola burocratica in cui sono finiti dopo essere risultati beneficiari del programma e aver lasciato i propri impieghi all’estero per tornare in Italia. Se questi sono i risultati, ben pochi saranno incentivati a rientrare, se non per le feste.