Lavorare gratis, non è lavorare. Si chiama volontariato. Il mondo del lavoro in Italia sta conoscendo un momento molto difficile, e a farne le spese, come sempre, sono i più deboli. Che in questo caso vuol dire i giovani, freschi di studi e alla ricerca disperata di lavoro, esperienza, magari un giorno anche un guadagno: sogni. Ormai si è arrivati all’assurdo, con annunci che chiedono “stagisti con esperienza”, oppure “candidato/a con comprovata esperienza nel settore di almeno 2 anni, titolo di studio specialistico, età massima 26 anni”. Un condensato di contraddizioni che hanno il solo fine di creare grande frustrazione in chi a quel punto dovrebbe chiedersi se veramente ha una considerazione di sé tanto bassa da considerarsi un “candidato/a”. Superato il blocco dell’annuncio paradossale, il problema è poi che quando si arriva a parlare di lavoro, il denaro non viene mai nominato. Niente rimborso del biglietto o dell’albergo se per il colloquio ci si deve spostare, men che meno dopo, quando il lavoro comincia. Per carità, è un’occasione talmente ghiotta per “mettersi in vetrina” che non ce la si può fare sfuggire. Pazienza se l’azienda non ha budget per finanziare quella posizione, intanto meglio iniziare a lavorare, poi chissà un giorno. Ma quel giorno non arriva mai.
Andrebbero in realtà separate le due questioni: stage e lavoro. Il primo non prevede una vera e propria retribuzione, bensì un rimborso spese. Dovrebbe essere un modo per aiutare i ragazzi a inserirsi nel mondo del lavoro, imparare un mestiere, misurarsi con mansioni e contesti nuovi per chi arriva dai banchi di scuola o dell’università. Certo non dovrebbe essere un costo. Lo stagista è comunque una risorsa per l’azienda, quindi se non altro ha il diritto che sia quest’ultima a coprire le spese che egli sostiene per spostarsi e i pasti. E invece, molto spesso, non sono rispettate le due condizioni essenziali perché uno stage si possa definire tale: il rimborso, per l’appunto, e la temporaneità. Se infatti la legge impone un termine temporale per i contratti di stage, poi spesso la sua durata di fatto è prolungata ancora per molto tempo attraverso altri tipi di escamotage burocratici. Talvolta è l’aspirante stagista a commettere il primo errore, evitando di chiedere il rimborso spese. Su questo è utile leggere le molte storie pubblicate da Giovanna Cosenza nella sezione “Stage e lavoro” del suo blog. In un post, per esempio, si parla dei tanti giovani che evitano di chiedere un rimborso perché «L’azienda è vicino casa, per cui ci andrò in bicicletta, dunque non mi pare opportuno chiedere un rimborso». È solo una delle risposte che la Cosenza riceve dai suoi studenti quando intima loro di chiedere il rimborso, tanto che arriva a scrivere: «Il dubbio che mi assale su questo fiorire di “aziende sotto casa” è: cercano il tirocinio sotto casa per pigrizia? per non staccarsi da mamma e papà? per non dover negoziare il gettone di rimborso spese? troppo faticoso farlo? imbarazzante? Mah, sono perplessa. E stanca di ripetermi».
Analogo il discorso per quanto riguarda il lavoro svolto a titolo gratuito. Chi lo chiede sta commettendo un atto scorretto e chi lo accetta si sta probabilmente scavando la fossa in cui seppellire le ambizioni di guadagni futuri. Secondo Beppe Severgnini, in alcuni casi ha senso lavorare gratis, ma devono ricorrere alcune condizioni, che egli riassume nell’acronimo della teoria di Pippo: «Per scelta. Rinunciare al compenso è una libera scelta; ma dev’essere libera davvero. […] Investimento reciproco. Un ragazzo vuole capire se è adatto a un lavoro, e se il lavoro è adatto a lui. Una nuova iniziativa ha bisogno di un periodo di rodaggio. Un gruppo di giovani si mettono insieme e decidono di non cercare subito un reddito. […] Persone serie. Molte offerte di impiego gratuito arrivano da persone/organizzazioni poco serie. Gente con cui non si dovrebbe prendere neppure un cappuccino, figuriamoci lavorare. […] Patti chiari. Il periodo di prova non può allungarsi troppo: questo dev’esser chiaro da subito. È come per i fidanzamenti: ci si sposa o ci si lascia. […] Occasionalmente. Prestare la propria opera gratuitamente dev’essere, comunque, un’eccezione. Il datore di lavoro che trasforma l’eccezione nella regola non è una persona seria (vedi punto 3). È accaduto con lo stage».
Ci sentiamo di sottoscrivere, a grandi linee, la teoria di Pippo. Ma siamo convinti che le difficoltà a farsi pagare non debbano diventare una ragione per restare schiacciati da un sistema iniquo, bensì uno stimolo all’aspirante lavoratore per mettersi sul mercato in maniera creativa, ritagliandosi uno spazio specifico che porti le aziende a vedere in lui una risorsa subito utile. Proporsi come “jolly”, che sa fare un po’ questo e un po’ quello, che chiede di essere assunto e poi di trovare una sua posizione all’interno dell’azienda, costringendo questa a pensare per lui al ruolo che egli dovrebbe avere, non funziona (leggere qui). Forse un tempo, quando altri ritmi regolavano il mondo del lavoro. Oggi è richiesto uno sforzo in più, e anche durante la formazione, all’università, si dovrebbe insegnare agli studenti a pensare di più a cosa vorranno fare della conoscenza, una volta che dovranno spenderla.