Ieri l’Ocse ha rivisto al rialzo le previsioni per l’Italia e indirettamente ha espresso parere positivo sugli ultimi provvedimenti del governo in tema di occupazione. In realtà, a guardare bene i numeri, così come li riporta l’Ansa, conviene trattenersi dall’esultare assieme alla “politica dell’ottimismo”. Per quanto riguarda infatti il tasso di disoccupazione, l’Economic Outlook Ocse riporterebbe che esso «calerà dal 12,3 per cento di quest’anno all’11,7 per cento nel 2016 e 11 per cento nel 2017». D’accordo, si tratta pur sempre di un trend negativo, dunque è una buona notizia.

Resta tutto da vedere il fatto che la previsione sia confermata, e soprattutto, a giudicare da com’è andato l’ultimo anno, c’è di che contenere gli entusiasmi. Finora, infatti, le oscillazioni del tasso di disoccupazione sono confinate, come scrive Luca Ricolfi sul Sole 24 Ore, entro il perimetro dell’errore statistico. «Da quando è stata introdotta la decontribuzione (1° gennaio) a tutto settembre, ossia in nove mesi – scrive il sociologo –, l’occupazione è cresciuta di appena 185mila unità e, sorprendentemente, la quota di lavoratori a tempo determinato (i “precari” che si desiderava stabilizzare) non è diminuita ma è addirittura aumentata. Nel secondo trimestre di quest’anno (ultimo dato disponibile), la quota dei precari non solo è un po’ maggiore che nel corrispondente trimestre dell’anno scorso, ma è tornata a un soffio dal suo massimo storico (14,2 per cento), toccato durante il governo Monti».

Il bilancio sugli effetti delle politiche del governo sull’occupazione risulta quindi piuttosto modesto. Ricolfi insiste ancora sulla “magrezza” del risultato: «Il bilancio è magro, innanzitutto, in termini di costi e benefici. Perché i costi sono stati altissimi (circa 12 miliardi, spalmati in 3 anni, per i soli assunti nel 2015), ma i benefici occupazionali sono stati minimi. Per rendersene conto, basta confrontare l’incremento di posti nei primi nove mesi del 2015 (vigente la decontribuzione, e con il Pil in crescita), con quello dei primi nove mesi del 2014 (senza decontribuzione, e con il Pil in calo). Sembra incredibile, ma la formazione di posti di lavoro è del tutto analoga: 185mila nel 2015, 159mila nel 2014. La differenza è trascurabile (prossima all’errore statistico), tanto più se si considera che nel 2014 l’economia andava decisamente peggio che nel 2015». Non osiamo insinuare che all’Ocse non abbiano fatto questo tipo di confronto, dal quale si evince facilmente che le politiche di governo sull’occupazione sono tutt’al più ininfluenti. Forse l’esecutivo è stato bravo a presentare interpretazioni dei dati in chiave ottimistica, com’è abituato a fare, fino a convincere l’organo internazionale che si tratta della fantomatica “volta buona” per l’Italia.

Una variazione che non arriva a 200mila unità non è significativa di una qualche svolta. Del resto, non sappiamo quali dati abbiano potuto consultare all’Ocse, ma l’ultima rilevazione Istat disponibile non parla certo di grandi speranze per il futuro. Non vogliamo fare i pessimisti a tutti i costi, non ne avremmo motivo, ma non vediamo sostanziali motivi che ci facciano pensare di essere di fronte a un cambio di rotta evidente. Qualche timido segnale c’è, ma a questa velocità ci vorranno decenni prima che l’Italia si riprenda. «I Paesi che hanno cambiato qualcosa nei propri fondamentali non hanno spostato qualche decimale, ma hanno spostato qualche punto nelle grandezze chiave: una riduzione della spesa, o della pressione fiscale, o del deficit, comincia ad essere apprezzabile, ossia incisiva, quando è di almeno un punto di Pil. Quando si parla di cambiamenti la cui ampiezza è prossima a quella dell’errore statistico o dell’errore di previsione, bisogna rendersi conto che la discussione può essere utilissima per capire in che direzione si sta andando (ovvero se il malato sta migliorando oppure no), ma resta sostanzialmente muta per quel che riguarda la sostanza del problema, che è quello di misurare la distanza da una piena guarigione».

Non dimentichiamoci che negli anni più bui della crisi sono andati in fumo circa un milione di posti di lavoro, e prima di allora ne mancavano altri sei milioni per rientrare nel tasso di occupazione medio dei Paesi Ocse. Siamo a 7 milioni di posti di lavoro dal traguardo. Sicuri che 185mila siano abbastanza per crederci fuori dai guai?

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