
Avevamo speso parole di incoraggiamento e speranza per il responsabile alla spending review nominato dal governo, Carlo Cottarelli. La sua nomina, lo scorso novembre, lasciava qualche spiraglio all’idea che dal suo approccio basato su collaborazione e partecipazione potesse nascere un documento serio sui risparmi possibili nella pubblica amministrazione. Una relazione che andasse a colpire, una volta per tutte, gli sprechi, lasciando in pace i settori e le persone che di spending review ne fanno già fin troppa ogni giorno, da prima che diventasse di moda chiamarla così. Invece pare che stiamo andando incontro all’ennesima delusione, almeno a giudicare dal parere espresso dall’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) a riguardo.
Secondo la nota pubblicata dall’organizzazione internazionale, «Esistono sicuramente margini per la riduzione di sprechi e inefficienze, e molte delle proposte formulate finora vanno in questa direzione. Le proposte riferite alla spesa sanitaria, tuttavia, si basano sull’analisi di dati che non consentono di apprezzare la situazione di crescente svantaggio in cui versa il Servizio sanitario nazionale rispetto ai sistemi sanitari di altri maggiori Paesi europei». Il piano Cottarelli prevede, per l’ambito sanitario, «una riduzione complessiva [della spesa] di 3,1 miliardi di euro nel triennio 2014-16, attraverso misure da includere nel Patto per la Salute; un’ulteriore riduzione di spesa collegata all’acquisto di beni e servizi per un ammontare totale di 10,3 miliardi nel triennio (quota settore sanitario non specificata)». A supporto dell’opportunità di tali tagli, il piano fornisce due elementi: «1. La spesa sanitaria è rimasta invariata nel periodo 2009-13, contro una flessione del 10 per cento nella spesa dello Stato; 2. La spesa sanitaria rappresenta il 7.05 per cento del pil in Italia, contro il 7.28 per cento, in media, in una selezione di paesi dell’Eurozona, e contro un benchmark del 5.25 per cento, calcolato tenendo conto dei vincoli di finanza pubblica».
L’Ocse, lungo le pagine della nota, smonta passo passo l’impianto del documento di Cottarelli, sottolineando l’inappropriatezza dei parametri scelti a descrivere la realtà della sanità italiana. In sintesi, si legge, «L’Italia ha una spesa sanitaria pubblica di oltre un terzo inferiore alla media dei paesi dell’area euro considerati nella spending review, e il divario è triplicato dall’inizio degli anni 2000. Il livello di prestazioni sanitarie erogate in Italia è sensibilmente inferiore alla quasi totalità degli altri Paesi dell’area euro considerati. L’andamento della spesa sanitaria pubblica dal 2009 è in linea con l’andamento della spesa pubblica totale, come nella maggior parte degli altri Paesi. Il benchmark proposto (5,25 per cento del pil) per la spesa sanitaria pubblica non è compatibile con il modello di Servizio sanitario nazionale esistente in Italia». In sostanza, rileva l’Ocse, la situazione della sanità italiana è già in seria difficoltà rispetto ai livelli degli altri Paesi osservati, quindi l’introduzione di tagli di questo tipo andrebbe solo ad aggravare le differenze che già ci sono.
«25 miliardi di tagli realizzati in pochi anni – scrive Roberto Polillo su QuotidianoSanità.it – hanno inciso profondamente sulla reale disponibilità di servizi, su quella che siamo abituati a chiamare l’esigibilità dei diritti con punti di caduta estrema sulla prevenzione sia sugli ambienti di vita che di lavoro i cui interventi sono stati azzerati quasi in ogni luogo. E il prezzo più grande dopo i cittadini lo hanno pagato gli operatori della sanità, l’unica risorsa incompressibile, il cui potere di acquisto si è ridotto del 20 per cento e il cui carico di lavoro è diventato insopportabile per la riduzione degli organici mai rimpiazzati anche nei servizi afferenti alle aree critiche». Del resto, anche Matteo Renzi si è detto poco convinto del piano Cottarelli, ponendo l’accento su altre vie poco battute per generare risparmio: «Noi abbiamo decine di migliaia di centri d’acquisto in Italia -ha detto il premier-, ciascuna istituzione si fa il proprio centro d’acquisto e magari compra le stesse cose». Vero, noi lo dicevamo già due anni fa. Ora però intervenite.