In questi giorni si è sviluppato un interessante dibattito sul sito del mensile Vita attorno all’argomento delle logiche aziendali nel terzo settore. Lo spunto parte da un articolo di Fabrizio Floris, che prende le mosse dall’influenza delle fondazioni bancarie e del tipo di cultura del lavoro che hanno portato nel terzo settore. «La conseguenza è stata una crescente competizione, razionalizzazione e professionalizzazione del Terzo Settore».
Confondere i finanziamenti con la mission
Una tendenza su cui Floris si concentra è quella a orientare le attività degli enti a seconda dei bandi che vengono pubblicati, con il rischio di perdere di vista la missione fondamentale dell’organizzazione, trasformandola in sostanza in un “progettificio”. Questo, a suo avviso, è particolarmente rischioso nel campo del sociale, che ha come obiettivo il proprio “fallimento”. Normalmente infatti le iniziative sociali nascono per colmare una lacuna lasciata da chi per primo dovrebbe occuparsene (lo Stato, i Comuni o altri enti pubblici). Nel sopperire alle mancanze delle istituzioni, ci si augura che nel tempo le lacune vengano colmate, e che quindi l’apporto dell’associazione non sia più necessario. In questo, le logiche aziendali sono viste come un rischio. «Il sociale – scrive Floris – è in sintesi stare dalla parte della gente, ma le pratiche aziendalistiche hanno introdotto persone ed enti che hanno acquisito capacità di response set, di linguaggio, di scrittura, non per essere dalla parte della gente, ma dei finanziamenti».
Non confondere i mezzi con i fini
In un successivo articolo di Christian Elevati si fa notare che una cosa non esclude l’altra: le competenze aziendali possono diventare un utile supporto alla mission dell’organizzazione, e non sono necessariamente destinate a tradirla. L’importante, scrive Elevati, è non confondere il mezzo (bandi e altre opportunità di finanziamento) con i fini (la mission). Di seguito uno stralcio del suo ragionamento: «Fermo restando che il sociale ha logiche proprie, davvero non possiamo apprendere proprio nulla da alcune aziende profit? Davvero processi e strumenti di origine profit che possono renderci più efficaci ed efficienti sono così lontani dalla nostra missione? Io credo di no. E lo credo sia per esperienza personale sia perché vi è ormai ampia letteratura che ragiona per funzionamento organizzativo a prescindere dalla tipologia di organizzazione (profit o non profit). Sto dicendo dunque che aziende profit e non profit sono uguali? Ovviamente no! Lasciando stare per il momento tutte quelle realtà ibride che caratterizzano sempre più la nostra attualità (le “imprese sociali”, le B-Corp ecc.), credo al contrario che le organizzazioni, essendo composte tutte di persone, possano apprendere le une dalle altre, a determinate condizioni. Questo significa, naturalmente, che anche le aziende profit hanno da imparare dal Terzo Settore. Che poi non è niente di diverso da quello che Floris definisce “sapere essere aziendali e sociali”».
L’esperienza di Avis Legnano
Dal canto nostro, non possiamo che sentirci più vicini al ragionamento di Elevati, pur condividendo alcune delle preoccupazioni di Floris. In un contesto, peraltro, in cui è sempre più difficile operare nel sociale appoggiandosi esclusivamente a finanziamenti pubblici, la capacità di progettazione diventa un asset (ci si perdoni il termine aziendale) importante. Più in generale, come Avis Legnano non abbiamo mai avuto paura di guardare al di fuori del nostro stretto campo di gioco, portando nell’associazione competenze anche diverse (senza ovviamente mai perdere di vista la nostra missione). La storia e lo sviluppo della sezione parlano da sé, crediamo, nello stabilire se si è trattata di una scelta sensata. Aggiungiamo un ulteriore tassello al ragionamento precisando che, in realtà, un’associazione non deve cercare il proprio fallimento. Al limite se lo può augurare. Nel caso di Avis, ci possiamo augurare che a un certo punto la società non abbia più bisogno di noi, ma finché ci siamo (e siamo indispensabili) non possiamo che operare su standard d’eccellenza. L’obiettivo non è solo affiancare il settore pubblico in un’attività essenziale per la salute pubblica, ma anche proporre un modello che sia efficiente e prestante. Come associazione è doveroso stare nei parametri imposti dallo Stato, ma è implicito che si debba fare anche qualcosa in più ed essere un esempio per quel soggetto (Stato, Comune, ente pubblico) che non è del tutto in grado di farsi carico dei bisogni di un pezzetto di società. Rendere un’associazione “non più necessaria” è una sfida per lo Stato, più che per l’associazione. Quest’ultima ha il compito alzare l’asticella, proponendo un modello che sia al contempo pienamente funzionale e cogente, ma anche difficile da replicare.
(Foto di Hunters Race su Unsplash)