Il 1° luglio la città di Ivrea è stata riconosciuta patrimonio dell’umanità da parte dell’Unesco, l’organismo delle Nazioni unite che si occupa della tutela dell’istruzione, della scienza e della cultura. L’iscrizione della città piemontese nella lunga lista di siti e beni italiani tutelati dall’organizzazione sovranazionale (è il 54esimo, il che conferma che siamo il Paese con più tutele al mondo) si deve alla sua particolarità urbanistica, storica e culturale all’interno del panorama italiano.
Quando si nomina Ivrea, non può che venire in mente il nome di Adriano Olivetti, che con la sua idea di imprenditorialità ha costituito un laboratorio interessante e di successo fino alla sua morte, avvenuta prematuramente nel 1960. Nei quasi trent’anni in cui ha gestito l’azienda di famiglia, fondata dal padre Camillo, egli ne ha caratterizzato il sistema di produzione sviluppando una propria idea comunitaria della fabbrica. Un approccio che è stato poi definito “capitalismo dolce”, e che vedeva la fabbrica come fulcro delle relazioni sociali della città, oltre che della produzione.
Come si legge sul sito della Commissione italiana dell’Unesco, «Ivrea è stata accolta nella lista del Patrimonio anche e soprattutto perché espressione di una particolare visione, quella di Adriano Olivetti e del Movimento Comunità, che ha mirato ad un connubio tra produzione industriale, dimensione umana e sociale, architettura, design e innovazione. Non a caso tra i criteri in base ai quali Ivrea è stata accolta nel Patrimonio Mondiale c’è proprio quello che fa riferimento all’“essere direttamente o materialmente associati con avvenimenti o tradizioni viventi, idee o credenze, opere artistiche o letterarie dotate di un significato universale eccezionale”». Nei siti di produzione della Olivetti sono passate figure che normalmente non assoceremmo al mondo dell’industria, come gli scrittori Franco Fortini e Paolo Volponi. E, a differenza di altre aziende concorrenti, a sorvegliare il lavoro degli operai non erano ex impiegati nelle forze dell’ordine, ma psicologi e sociologi.
I principi che sottostanno al lavoro di Olivetti – come sottolineato da Beniamino De’ Liguori, segretario generale della Fondazione Adriano Olivetti, durante la puntata di ieri di Tutta la città ne parla, Radio3 – hanno a che fare con la ricerca di una nuova centralità della persona all’interno del processo produttivo, e della preservazione della sua identità, nonostante la rigida organizzazione del lavoro imposta dalla rivoluzione industriale. È un premio che ha il sapore della nostalgia, visto che il modello di Adriano Olivetti non ha conosciuto tentativi di replica dopo la sua morte. La sua gestione prevedeva una costante ricerca della bellezza in tutto il processo produttivo, dal design alla grafica all’architettura della fabbrica. Egli si preoccupava degli interessi culturali dei dipendenti, e offriva un sistema di servizi alla persona molto avanzato, non solo dedicato ai dipendenti ma a tutta la comunità circostante. Un sistema tecnicamente progredito, ma non per questo umanamente impoverito.
Nostalgia, si diceva, perché non sembra che il suo esempio abbia fatto germogliare in altri imprenditori l’idea che si potesse prendere spunto da Olivetti per replicare l’esperienza o per introdurre innovazioni che andassero nella stessa direzione. Il mercato attorno alla Olivetti ha cercato piuttosto di schiacciare economicamente la “scomoda” multinazionale italiana, che nel corso dei decenni successivi ha dovuto cambiare natura per poter sopravvivere. Secondo molti, tra cui lo scrittore di Ivrea Marco Biàz, intervistato nella stessa trasmissione, quello di Adriano Olivetti non è un modello replicabile. Il mondo è andato in una direzione troppo lontana rispetto alla visione dell’imprenditore piemontese. Certo, verrebbe da dire che nemmeno a quei tempi il terreno sembrava ideale per avviare un’esperienza così particolare.
Eppure, per quasi un trentennio, la sua gestione portò l’azienda a diventare leader nel mondo nella produzione di calcolatori di vario tipo. Oggi l’idea di bellezza nella produzione industriale è tutta concentrata sul design del prodotto. Poco importa che questo sia assemblato in anonimi capannoni ai margini del pianeta, sfruttando il lavoro di persone che non potranno mai permettersi di comprarlo. Ma è proprio quando tutti vedono le cose in maniera uniforme che nasce il bisogno di qualcuno che sappia gettare lo sguardo più avanti, e dare vita a un nuovo punto di vista.
(Foto di Michele M.F. su flickr)