di Federico Caruso

C’è un palazzo vuoto nel centro di Milano. Lo è stato per anni, poi ha iniziato a popolarsi di idee e persone. Ma per poco, giusto dieci giorni. Appena il tempo di iniziare a “pensare di volare”, ed è tornato triste e vuoto. Torre Galfa è il nome del palazzo, e il progetto che ci stava dentro si chiama Macao. Da non confondere le due cose, mi raccomando, perché l’intenzione non era “occupiamo uno spazio e poi ci facciamo qualcosa”. Forse è stato così in altre occasioni, in altre occupazioni. Non stavolta.

Qui c’è una necessità di fondo, quella di cultura, che non vede l’ora di venire a galla. Ha deciso di farlo in una maniera al contempo eclatante ed elegante. Entrando (illegalmente, inutile nasconderlo) in un grattacielo situato nei pressi della Stazione Centrale. È successo il 5 maggio, c’erano circa tremila persone. Tra cui famiglie, bambini, gente del quartiere incuriosita da tutto quel fermento. Tra cui, più tardi, Stefano Boeri, assessore alla Cultura del capoluogo. Chi scrive ha fatto in tempo a entrare, era il 10 maggio, a fare un giro nella pancia di Macao, per vedere il ritmo e la sostanza del suo metabolismo.

C’era tanta gente operosa, operativa. C’era un referente, a cui ho potuto rivolgere domande -Ronny, del collettivo di artisti F84-. C’era gente che cercava già di dare a quel luogo un aspetto accogliente, funzionale. Nel rispetto dell’idea che per fare cose belle bisogna vivere in un bel posto. Concetto che vale, dovrebbe valere, anche per la città nel suo complesso. «Siamo artisti, curatori, critici, guardia sala, grafici, performer, attori, danzatori, musicisti, scrittori, giornalisti, insegnanti d’arte, ricercatori, studenti, tutti coloro che operano nel mondo dell’arte e della cultura». Così si descrivono nella cartella stampa (sì, mi hanno dato anche quella, in pdf).

A pochi giorni dall’inaugurazione Macao aveva già un calendario, con docenti della Naba che hanno tenuto lezioni, artisti che sono venuti gratuitamente a fare concerti (senza esagerare coi volumi, in un’ottica di buon vicinato). C’erano numerosi tavoli attivi e partecipati per decidere le attività future da realizzare. Ma in maniera scientifica. Se ti siedi non basta avere belle intenzioni e tanta buona volontà. Dev’esserci un’idea, un progetto, uno studio di fattibilità. Allora si apre il bando, si vede se la cosa è realizzabile, se ne parla al Tavolo dei tavoli, si calendarizza. Sembra utopia, eppure l’ho visto succedere, lì, sotto i miei occhi.

Ora tutta quella gente non sta più dentro alla torre. È arrivato lo sgombero. Legittimo, incontestabile. Ma Macao non è una questione di ordine pubblico, questo bisogna capirlo. Dice «ma se sono così organizzati e strutturati, perché non hanno chiesto uno spazio sfruttando gli strumenti legali?». Se ho capito lo spirito, questo potrebbe essere il secondo passo. Intanto si è dato un segnale, forte, alla città. L’amministrazione sembra averlo recepito, e la visita del sindaco Giuliano Pisapia ha fatto apparire all’orizzonte l’ipotesi di uno spazio alternativo (l’ex Ansaldo). Si vedrà come evolverà la situazione. Intanto, qualcosa di nuovo è nato a Milano. E qui do ragione al collega Michele Fusco, che su Linkiesta.it chiosa così: «Macao a suo modo proponeva cultura, non era una copertura per giri loschi, e neppure luogo di gente sbandata senza arte né parte. Dovremo forse far pace con l’idea secondo cui tutto ciò che nasce da qualcosa di irregolare (sì, anche fuori dalla legge), alla fine non possa produrre un bene. Perché in questo modo negheremmo la storia straordinaria di persone illuminate». Unica obiezione: non proponeva, ma propone; non era, ma è. Macao non è torre Galfa, né palazzo Citterio. Macao è ciò che sarà.