Di tutti i discorsi, le interviste e gli interventi pubblici di Paolo Borsellino, forse il più famoso e il più toccante è quello pronunciato durante una veglia a circa un mese dalla morte, per mano della mafia, dell’amico e collega Giovanni Falcone. In esso Falcone viene descritto come «consapevole che il lavoro dei magistrati e degli inquirenti doveva entrare nella stessa lunghezza d’onda del sentire di ognuno, di ogni cittadino. La lotta alla mafia (il primo problema morale da risolvere nella nostra terra, bellissima e disgraziata) non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, che coinvolgesse tutti, specialmente le giovani generazioni, le più adatte, proprio perché meno appesantite dai condizionamenti e dai ragionamenti utilitaristici che fanno accettare la convivenza col male; le più adatte cioè, queste giovani generazioni, a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e, quindi, della complicità». Si tratta di un passaggio illuminante che, nella chiarezza che ha sempre contraddistinto l’oratoria di Borsellino, descrive uno spaccato non solo della Sicilia di allora, ma dell’Italia tutta, e che dimostra ogni giorno la sua piena attualità.
Quel progetto culturale, quel fresco profumo di libertà, sono stati in parte sbriciolati dall’esplosivo che si è portato via i due magistrati (e tanti altri uomini di giustizia prima di loro). Non parliamo qui delle aule di giustizia, dove la magistratura continua la sua lotta alla criminalità organizzata, pur con tutte le difficoltà che questo implica. Ci riferiamo a ciò che succede fuori, nella società civile, nelle forme in cui questa si organizza così come nel singolo individuo. Troppo spesso infatti ci si convince di sentirlo, quel fresco profumo di libertà, solo perché si distoglie il naso (e lo sguardo) dal “puzzo del compromesso morale”. Spesso le due cose si presentano contigue, siamo noi a scegliere cosa vedere e in cosa riconoscerci. Si può anche aprire la finestra, per restare nel mondo delle metafore, ma l’aria pulita dall’esterno da sola non basterà a spazzare la polvere. Ci vuole qualcosa in più.
La mafia vince quando nessuno la vive come un problema anche proprio. Se è un fenomeno che riguarda sempre qualcun altro, si tenderà a delegare anche la lotta per fermarla. Se ne occupino gli specialisti della materia, si dirà: forze dell’ordine, magistrati, politici. Ma è solo scardinando questa convinzione, e portando ciascuno “dentro” al problema, che si pongono le basi per opporvisi. Chi guarda dall’altra parte magari non è mafioso, ma ha già un requisito fondamentale per diventarlo, o per lo meno per agire a tutto vantaggio della mafia, lasciando che essa si muova indisturbata. «Ricordo la felicità di Falcone – diceva ancora Borsellino in quell’occasione –, e di tutti quelli che lo affiancavamo, quando, in un breve periodo di entusiasmo conseguente ai dirompenti successi originati dalle dichiarazioni di Buscetta, egli mi disse : “La gente fa il tifo per noi”. E con ciò non intendeva riferirsi soltanto al conforto che l’appoggio morale della popolazione dà al lavoro del giudice: significava di più, significava soprattutto che il nostro lavoro, il suo lavoro, stava anche smuovendo le coscienze, rompendo i sentimenti di accettazione della convivenza con la mafia, che costituiscono la vera forza della mafia».
Purtroppo questo clima durò poco, Falcone e Borsellino furono lasciati sempre più soli, e fu proprio questo a ucciderli, come conferma la deposizione Agnese Leto Piraino, moglie di Borsellino, nel 2009: «Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò potesse accadere». Questa dichiarazione si può tradurre anche in un altro modo: in una società diversa, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino avrebbero continuato a fare il proprio mestiere, e magari adesso si starebbero godendo la pensione.
Siamo certi che quel progetto culturale abbia attecchito nelle coscienze di molte persone: ci sono tanti onesti che ogni giorno si spendono per non accettare compromessi, per non prestarsi a un gioco a cui è molto più facile perdere che vincere. Perché basta “vendersi” una volta per risultare indistinguibili dal mafioso di lungo corso. Possiamo fare mille distinguo per giustificare un gesto del genere, ma una volta avvenuto è già cambiato tutto. L’onesto che si vende, anche una sola volta, è ancora onesto? Chi, pur sapendo, gira lo sguardo dall’altra parte, può continuare a dirsi estraneo a certe dinamiche mafiose? Dove sta il confine? Si tratta di una linea che si sposta di continuo, per farci entrare tutti coloro che si sentono onesti? O è un solco ben definito, e lo sforzo di ognuno dev’essere di non oltrepassarlo?
Vi è un elemento di speranza nelle parole di Borsellino, ed è rivolto alle nuove generazioni. Tutto ciò che non è ancora corrotto da certe dinamiche, da una certa rassegnazione all’accettazione, dev’essere il perno su cui fondare una rivoluzione culturale. Ciò che si presenta come nuovo gode di un credito di fiducia dato dal fatto che, per definizione, non può che essere pulito. Ma basta poco per tradire quella fiducia, sporcarsi, diventare l’ennesima replica del modello che si dice di voler sovvertire. A questo passaggio, e alla possibilità che non avvenga, restano appese le ultime speranze di vedere realizzato un giorno quel progetto culturale.
(Foto di Santino Patané su flickr)