Il nostro post di ieri chiosava invocando prontezza e rigore nel controllo dei costi delle authority. Quella per il terzo settore, che costava complessivamente 700mila euro all’anno, è stata chiusa senza esitazioni. La stessa cifra basterebbe appena a coprire gli stipendi dei soli presidenti di altre authority, che evidentemente danno risultati eccellenti, visto quello che (ci) costano: al nono posto, ex aequo, tra i manager pubblici più pagati d’Italia, figurano infatti Corrado Calabrò, presidente dell’AgCom, e Giovanni Pitruzzella, numero uno dell’Antitrust, con 475.643,38 euro.

Al decimo, a pochi centesimi di distanza, il presidente dell’Autorità dell’energia, Pier Paolo Bortoni, che ha ricevuto 475.643 euro. E non sono solo i presidenti ad avere stipendi d’oro. Seguono infatti i componenti dell’Autorità dell’energia (Valeria Termini, Luigi Carbone, Rocco Colicchio e Alberto Biancardi, con una retribuzione di 396.379 euro). A breve distanza si trovano i membri dell’Antitrust e dell’AgCom con 396.369,44 euro, e poi il direttore generale della Consob, Antonio Rosati, con 395mila euro (“più la gratifica annuale”) e ancora i componenti dell’Autorità di vigilanza sulla Borsa, con 322mila euro.

Questa lunga premessa per ricollegarci a un tema di grande attualità, ossia il tetto agli stipendi dei manager pubblici, che governo e Parlamento stanno cercando, con fatica, di fissare. Il 28 febbraio l’Ansa ha pubblicato una nota della Camera, secondo la quale il limite «non può applicarsi in via immediata ai trattamenti stipendiali correlati ad attività lavorative stabili, esclusive e continuative». Questo in base al divieto di reformatio in peius dei contratti in corso.

Due giorni dopo, il primo marzo, arriva il parere positivo da parte di Camera e Senato sul tetto, fissato a 294mila euro, pari allo stipendio annuo lordo del primo presidente della Corte di cassazione. Sembra insomma che il vento sia cambiato, e che si possa procedere al cambio in corsa. Pareri positivi e unanimi dalle commissioni competenti, voto favorevole da parte di tutti i principali gruppi parlamentari, salvo la Lega Nord (sia alla Camera, sia al Senato).

Ma potrebbe essere solo un’apparenza. Diversi i sospetti di inattuabilità del provvedimento, espressi da varie voci. Tra queste, Linda Lanzillotta (Api) spiega in una nota che «Il parere favorevole è un capolavoro di subdola ipocrisia. Mentre si dà formalmente il via libera al decreto, nelle motivazioni dello stesso parere si sostiene la incostituzionalità non solo del decreto, ma anche della norma di legge che ne è il presupposto». Lo stesso parere, infatti, «profetizza una cascata di ricorsi, molto probabilmente accolti», da parte dei manager colpiti, con «un danno assai maggiore del risparmio che il provvedimento può determinare». Una norma che nasce “suicida”, insomma, dato che le retribuzioni dei dirigenti pubblici sono fissate da contratti.

Ci permettiamo di avanzare una proposta. Forse provocatoria, ma che di certo farebbe uscire dall’impasse tutti quanti: governo, Parlamento, manager. Perché questi ultimi non danno volontariamente le dimissioni, facendosi riassumere alle stesse condizioni del contratto precedente, fatto salvo il tetto di stipendio di cui sopra? Se è vero che c’è questa ventata di cambiamento nell’aria; che si vogliono davvero ridurre gli sprechi; che improvvisamente sono diventati tutti buoni, mentre a essere cattiva è la legge che impedisce cambiamenti nei contratti già stipulati; se è vero, per finire, che la vogliamo smettere di prendere in giro dipendenti pubblici e pensionati che, quando c’è da risanare i conti, si vedono ridurre stipendi e pensioni senza tanti complimenti, allora proviamo a darlo questo segnale. È un’occasione imperdibile, l’ennesima, di dimostrare che non ci sono cittadini “più uguali di altri”.