La città di Palermo sta ospitando Manifesta, la biennale europea di arte contemporanea, una rassegna che cambia sede ogni due anni e che esiste dal 1996. Si tratta di un’importante manifestazione, che si è aperta il 15 giugno e proseguirà fino al 4 novembre. Ne scrive Maurizio Carta su Doppiozero.
Molti confidano che Manifesta cambierà Palermo, e io tra questi, ma sono invece certo che già Palermo ha cambiato Manifesta. E la micro-storia delle relazioni tra Palermo e Manifesta può dare indicazioni preziose ad altre città che scelgano la strada di un diverso presente fondato sull’arte, sulla cultura e sulla creatività, sulla partecipazione e sul welfare culturale, sulla rigenerazione urbana e umana. Perché Manifesta 12 a Palermo è un utile laboratorio per sperimentare la improrogabile territorializzazione delle politiche culturali e creative.
L’incontro con Palermo, ormai due anni fa, ha cambiato Manifesta facendole compiere una metamorfosi di cui le persone e la cultura locale sono stati i catalizzatori. La relazione di Manifesta con Palermo – con il Comune e l’Università, con gli studiosi e i giovani talenti, con gli artisti e gli attivisti, con le associazioni e i cittadini – è stata dirompente per una Biennale innovativa come quella inventata da Hedwig Fijen ventiquattro anni fa e che ha fatto del nomadismo e della fluidità la sua cifra politica e sociale, prima che artistica. Approdando nella fluidità plurale, creativa, conflittuale, policroma di Palermo ne è rimasta sedotta e ne ha tratto l’occasione per rivedere sia la visione che la modalità di relazione con la città ospite: utile indirizzo per altri eventi culturali nomadi. Non è stato ridotto il nomadismo, ma ne è cambiato il carattere: si è fatto urbano. Non è più la leggerezza del passaggio temporaneo alla ricerca di nuova energia la spinta che ne guida il cammino, ma vi è la disponibilità di arare il terreno e seminarlo per far germogliare frutti che rendano rigogliosa la città. Manifesta – sineddoche di altre iniziative artistiche urbane – non ha più la neutralità dell’innesto di arte contemporanea ma ha la responsabilità dell’innesco di processi evolutivi generati dall’arte contemporanea.
Con le sue numerose installazioni e performance articolate lungo un’ampia geografia urbana, il godimento di Manifesta 12 richiede un approccio triplice: da un lato le opere d’arte stimolano una riflessione critica e militante sui problemi del cambiamento climatico, delle migrazioni, del controllo e dei diritti, dall’altro lato i luoghi prescelti, alcuni aperti al pubblico per la prima volta, reclamano attenzione e accendono lo stupore per la loro bellezza dolente ma ancora vitale, infine la città si fa coprotagonista della nostra meraviglia mostrandosi da improvvisi oculi, completando spesso il senso delle opere con l’evidenza di una città che vive sulla pelle della comunità e sulle pietre degli edifici i temi della Biennale. Così Manifesta si fa un po’ meno aerea e più tettonica, genera bradisismi delle comunità con cui entra in contatto, agisce come catalizzatore evidente nel suo manifestarsi, disposto a sparire una volta che la catalisi abbia generato una nuova sostanza urbana, culturale, sociale, economica e, perché no, politica. Sì, perché politica è questa nuova vita di Manifesta che nasce dai lombi materni di Palermo, tra Santa Rosalia e San Benedetto il Moro.
E che una nuova etica abbia animato Hedwig Fijen e il Board, e poi la Fondazione Manifesta 12, è evidente nel primo atto della Biennale: iniziare, fin dall’anno precedente, il percorso curatoriale con uno studio urbano affidato ad OMA e in particolare alla sensibilità, rispetto e creatività di Ippolito Pestellini Laparelli e del team dei creative mediatorcomposto, oltre che dallo stesso Pestellini, da Bregtje van der Hawk, Andrés Jaque e Mirjam Varadinis. E il primo esito di quasi sei mesi di intenso percorso della città, di archeologia delle sue comunità e di interpretazione delle diversità è stato il Palermo Atlas. Un atlante che racconta, senza pretese di esaustività ma con stimoli di complessità, le molte Palermo che oggi convivono in un profondo palinsesto di valori e visioni e in un intricato reticolo di spazi percepiti, di spazi concepiti e di spazi vissuti, tutti insieme costituenti quella eterotopia di spazio e società che è sempre stata Palermo. Uno «strumento di sviluppo sostenibile per guidare e radicare l’eredità di Manifesta 12 per i prossimi anni», lo definisce Hedwig Fijen.
Un iper-atlante mi piace definirlo, un atlante di atlanti, un racconto di racconti, una mappa di mappe, un ritratto di persone e di spazi, una quadreria di architetture e paesaggi. Ippolito Pestellini lo dichiara espressamente nella sua introduzione: «non c’è un solo modo per avvicinarsi a Palermo, perché la città non può essere ridotta ad una singola identità o a definizioni precise: essa è un vitale e dinamico mosaico di frammenti e identità che emergono dal palinsesto di incontri e scambi di culture differenti che hanno reso intrinsecamente cosmopolita e sincretica la città. Più che una città, Palermo è lo snodo di una geografia allargata di flussi […], un laboratorio di impollinazione incrociata e un incubatore di condizioni globali. Palermo è paradigma del mondo nuovo».
Iniziare il progetto curatoriale di una Biennale di arte contemporanea con uno studio urbano non vuol dire solo che è mutata la visione e la missione dell’evento, ma vuol dire anche accettare la sfida di compromettersi con la complessa transizione di una città verso la contemporaneità, accettare la battaglia di contribuire a realizzare un futuro possibile.