L’articolo pubblicato dal filosofo Umberto Curi su La lettura, dal titolo “La medicina è servizio”, offre lo spunto per una ricognizione di come sia cambiata l’accezione con cui si utilizzano parole come cura e terapia. Curi inizia con un lungo excursus etimologico che dimostra come il therápon, così come inteso nell’Iliade, svolgesse la funzione di servitore. «La therapeía implica l’obbedienza -si legge-. Non si può assolvere ai compiti previsti per il therápon, se non ponendosi totalmente al servizio del proprio “assistito” e dunque prestandogli obbedienza». L’esplorazione etimologica continua poi con uno sguardo a volo d’uccello sul significato di queste parole nelle altre lingue europee. E ciò che si nota è una costante presenza in questi lemmi di aspetti di premura, interesse verso la persona, preoccupazione per l’altro.
Nel tempo il concetto è andato modificandosi, e come in quasi tutti i campi della vita umana l’equilibrio si è spostato verso la tecnica. Ora è al medico che è affidata la cura, l’amico non è più terapeuta. «La “cura” -scrive ancora Curi- non ha più alcun rapporto con la disposizione d’animo del terapeuta. Al contrario, questi scarica sulla cura -i farmaci e ogni altro intervento di manipolazione del paziente- ogni sua residua “preoccupazione”». Con la professionalizzazione del rapporto medico-paziente, il primo ha deciso di mettere da parte il coinvolgimento emotivo, individuando il proprio ruolo in quello di specialista capace di mettere in pratica una serie di azioni, la “cura”, che diano sollievo al paziente mediante l’interazione tra i costituenti chimici del farmaco e l’organismo umano. «Al culmine di un lungo percorso storico-concettuale -conclude il filosofo-, il rovesciamento è totale. E la terapia potrà perfino consistere nel dettare al telefono o nel trasmettere per via informatica i nomi impronunciabili di alcuni farmaci».
Torna in mente, nel leggere questa riflessione, il movimento Slow medicine, di cui parlavamo qualche mese fa. Un gruppo di professionisti che vuole rispondere direttamente a questa deriva tecnicistica fast che inevitabilmente si accompagna all’approccio descritto nell’ultima parte dell’articolo. «Fast non significa naturalmente “inefficace” -spiega il medico Giorgio Bert in un’intervista-: in ambito medico sostituire la comunicazione, la relazione tra professionista e paziente con una prescrizione, una capsula, una supposta può funzionare, e anche bene, in termini di terapia; ma laddove manca la cura, la presa in carico completa della persona, può ben esserci la regressione dei sintomi e qualche volta della patologia ma non c’è benessere, non c’è salute».
Di seguito le caratteristiche del medico slow, individuate dall’associazione che prende il nome dal movimento stesso, attraverso interviste: «Il medico slow ti ascolta con attenzione; ti prende sul serio; ti lascia parlare; ti fa domande sulle tue difficoltà nel seguire la cura; non trascura mai gli aspetti di prevenzione e di educazione del paziente; se hai dolore, ti visita di nuovo, anche se ti ha già visitato; prende sempre le decisioni assieme a te; ti incoraggia a fargli domande per capire meglio; si affianca al paziente nella scelta; stacca il cellulare quando state assieme e vi parlate; ti invita e ti aiuta a raccontare; tiene sempre presente che i pazienti hanno famiglia».
Crediamo siano caratteristiche che tutti vorremmo trovare incarnate dalla persona che abbiamo davanti quando siamo di fronte a un medico o chiunque sia chiamato a prendersi cura di noi. Slow medicine continuerà a portare avanti questa battaglia (qui potete leggere il manifesto). Da parte nostra potremmo iniziare tutti, quando ci troviamo nel ruolo di pazienti, ad esserlo un po’ meno, almeno in termini di remissività; quindi smettere di accontentarci della tecnica fast e chiedere a chi ci visita un approccio più slow. Perché chi hanno davanti non è una patologia, ma una persona con un problema di salute. Ed è la persona che ha bisogno di cure, non la patologia.