Nell’odierna ossessione per l’archiviazione si nasconde forse un fraintendimento tra ciò che è, appunto, semplice salvataggio di dati, e la capacità di trarre significato da tutta quella “informazione”. Lo spunto ci arriva da un interessante articolo di Adrian Lobe per il giornale svizzero Neue Zürcher Zeitung, pubblicato in italiano sull’ultimo numero di Internazionale. Nonostante la rivoluzione digitale avvenuta negli ultimi decenni abbia dato l’illusione di mettere documenti di qualsiasi tipo al riparo da deterioramenti legati ai supporti analogici, ci si è ben presto accorti che questo assioma non era poi così verificato. I tanti cd-rom che giravano in grande quantità fino a qualche anno fa, probabilmente non saranno più leggibili nel giro di pochi anni (se ancora lo sono). Per contro, i negativi delle foto dei vostri nonni, se conservati al riparo da luce e umidità, probabilmente sono ancora in perfetto stato. Certo, un dvd è in grado di contenere interi raccoglitori di negativi in uno spazio molto ridotto, ma qual è il vantaggio, se si sa già che un giorno non vi si potrà più accedere? Per non parlare delle lastre di vetro su cui sono state impresse le prime fotografie. Anche quelle, conservate correttamente, contengono tutta l’informazione necessaria a riportare in vita un frammento di realtà catturato anche 150 anni fa.

«Le prossime generazioni – si legge nell’articolo di Lobe – rischiano di soffrire di una sorta di amnesia digitale perché i vecchi formati potrebbero non essere più leggibili. “Possiamo creare grandi archivi di contenuti digitali ma nel tempo potremmo non essere più in grado di sapere cosa contengano”, diceva Vint Cerf, uno dei padri di Internet». Ma il problema è più ampio e non si esaurisce nella capacità di immagazzinare sequenze di 0 e di 1. Tutto questo archiviare non serve a nulla se non va di pari passo con la memoria. Non la capacità di un’unità di archiviazione digitale, ma l’intelligenza necessaria a interpretare quei dati, per determinare nuovi scenari. «I dati non sono necessariamente informazioni – scrive ancora Lobe –: di per sé non dicono nulla, bisogna fargli domande specifiche. Solo attraverso la creazione di strutture narrative i dati diventano informazioni. La questione ora è come conservare nel tempo queste informazioni che custodiscono anche il sapere sul funzionamento della nostra società».

Internet sta svolgendo un duplice ruolo in tale scenario. Da una parte è capace di una grandissima funzione di memoria. Oggi è possibile cercare sul web informazioni sul mondo risalenti a parecchi anni fa. Ogni dichiarazione o fatto raccontato su un sito d’informazione o blog è lì disponibile per future ricerche. Ma non sembra che Internet stia contribuendo a costruire una “memoria collettiva”. Sembra piuttosto vivere in un eterno presente dominato dalle emozioni del momento. Stiamo quindi forse mancando il bersaglio quanto ci concentriamo sulle tecnologie legate all’archiviazione, piuttosto che sulla memoria.

Se non c’è un minimo di sapere enciclopedico alla base (già nella testa di ognuno di noi, non in un qualche device esterno), non saremo mai in grado di cogliere il messaggio profondo di un testo. O comunque di andare oltre quello più superficiale e letterale. «La crescente funzione di memoria di internet rappresenterebbe la “radicalizzazione tecnica” della mania dell’archiviazione e dell’esplosione dei discorsi sull’argomento». A cosa serve “memorizzare” se poi non si è in grado di “ricordare”? Inoltre, rispetto al passato stiamo vivendo un grande cambiamento rispetto ai soggetti che si stanno occupando di archiviare le informazioni delle nostre civiltà. «Facebook e Google sono da tempo un archivio della nostra civiltà. Se nel medioevo erano gli ecclesiastici e i principi a controllare i luoghi che custodivano la memoria, ora quel ruolo è svolto dagli algoritmi delle aziende tecnologiche».

Chi ha gli strumenti per conservare è anche chi seleziona cosa conservare. Oggi conosciamo il passato grazie ai testi conservati nelle biblioteche e in altri luoghi che ne conservano le vestigia. Le società del futuro potrebbero conoscere la nostra storia leggendo i tweete gli aggiornamenti di statussui vari social network. Il lavoro di storici e studiosi è andare oltre le verità ufficiali che i centri di potere di una certa epoca vogliono imporre e tramandare. Ma c’è una differenza sostanziale nella ricerca, ed è legata al tipo di supporto: «La grande differenza tra i supporti analogici e quelli digitali è che in quelli analogici gli scarti possono essere recuperati. […] Nell’era digitale invece, i dati e a volte intere identità possono essere cancellati con un semplice clic, se non c’è una copia di riserva».