In questi giorni, un’operazione economico-finanziaria sta infiammando il già rovente clima estivo, ossia la fusione tra Unipol, gruppo assicurativo bolognese, e FonSai, presieduta da Jonella Ligresti, figlia di Salvatore. Una manovra orchestrata da Mediobanca e Unicredit, che vantano crediti verso la famiglia Ligresti rispettivamente per 1,1 miliardi e 500 milioni di euro. Pur di avallare questa operazione, le due banche avrebbero accettato che alla famiglia siciliana fosse concessa una buonuscita di 43 milioni di euro. «Il presunto contratto privato -scrive il Sole 24 Ore– destinerebbe all’ingegnere di Paternò un ufficio con segretaria, un autista e una cascina e prevederebbe una sorta di “liquidazione” per Jonella Ligresti e il mantenimento delle attività lavorative in Francia e in Svizzera per Giulia e Paolo Ligresti».
Tutti salvi, tutti tranquilli, se ciò fosse accertato dalle indagini della magistratura. Gli unici a restare beffati sarebbero gli investitori e i correntisti, verso i quali questa operazione si configurerebbe come una negazione delle regole del mercato e della garanzia di trasparenza che dovrebbero garantirne il funzionamento. La Consob (Commissione nazionale per le società e la borsa) ha infatti stabilito che per dare seguito alla fusione non sarà necessaria l’apertura di un’Opa (Offerta pubblica di acquisto), che avrebbe allargato di fatto le possibilità di acquisizione del gruppo in difficoltà da parte di altri investitori, perché l’operazione diretta dai due istituti di credito avrebbe consentito il salvataggio della società a garanzia degli azionisti. Tra le condizioni poste dalla Commissione c’era però quella per cui nessuno degli azionisti coinvolti avrebbe dovuto trarre vantaggio particolare dalla ricapitalizzazione.
Se le cose stessero come il documento affermera, tale disposizione sarebbe stata violata, proprio in ragione dell’accordo di cui si parla. «Ricatto o meno -prosegue il Sole-, quel batter cassa da parte dei Ligresti non è nuovo: già nel tentativo di salvare Imco e Sinergia (dichiarate fallite dal Tribunale) la famiglia pretendeva 50 milioni di cassa. Segno di una forte sofferenza finanziaria, almeno nelle due holding personali, che pur avevano attinto centinaia di milioni da FonSai e dalla Milano nel corso degli anni. Ma è anche vero che sia Mediobanca che UniCredit hanno accumulato tanti di quei prestiti alla famiglia da divenire in qualche modo ricattabili». Ci troviamo in sostanza con due banche in una situazione di rischio fortissima, data la loro situazione creditizia. Per di più verso un imprenditore che ha già avuto grossi problemi legali, come fu accertato ai tempi di Tangentopoli.
Si dirà che quelli coinvolti sono istituti di credito particolari, dediti a operazioni di alta finanza. Ma come possiamo fidarci di un sistema bancario che funziona in questo modo, e accettare per di più che avvengano tali operazioni, mentre piccoli imprenditori ben più solidi si vedono negate richieste di prestito, e lo stesso avviene per le famiglie che cercano di strutturare i propri progetti di vita? Proprio la questione non ci va giù, anche perché alimenta il forte sospetto che le banche continuino, nonostante le pesanti ripercussioni della crisi per le economie nazionali, a rischiare più di quanto dovrebbero, certe che comunque in caso di necessità i governi predisporranno dei piani di finanziamento per evitarne il fallimento, nascondendosi dietro l’espressione, del tutto ipocrita, di too big to fail.