Le nuove misure di incentivo alle università previste dalla legge di Stabilità 2017 chiamano in causa i problemi che sempre si legano alla meritocrazia: la scelta dei criteri e le modalità di assegnazione dei riconoscimenti. Due articoli pubblicati su Lavoce.info aiutano a capire in cosa consistono queste nuove misure e quali sono i rischi che nascondono. Come scrive l’economista Tullio Jappelli, una commissione appositamente nominata sarà incaricata di individuare 180 dipartimenti (tra le università statali) che si aggiudicheranno un contributo medio annuo di 1 milione e 350mila euro (1 milione e 80mila per i dipartimenti più piccoli, 1 milione e 620mila per i più grandi).
Questi soldi vanno ad aggiungersi ai contributi ordinari, quindi si tratta di cifre davvero notevoli per molte realtà universitarie. L’obiettivo del finanziamento, che non sarà una tantum ma dovrebbe diventare una misura stabile, è di favorire la competizione tra università al fine di migliorare i risultati dei dipartimenti che si occupano di fare ricerca, in modo da recuperare credibilità e reputazione anche agli occhi degli istituti esteri. Vi sono però vari problemi implicati da questo provvedimento, che vanno dalla scelta di stilare una classifica tra dipartimenti (e non tra atenei), alla decisione di non rendere progressivi gli incentivi, bensì segnare un confine per cui chi è nei primi 180 riceve il contributo pieno, mentre chi è oltre riceve zero.
Per quanto riguarda la prima questione, c’è il problema di mettere a confronto dipartimenti di aree diverse, cosa che violerebbe un principio base della Vqr (Valutazione della qualità della ricerca). «Ogni criterio di “standardizzazione” tra aree diverse è arbitrario – scrive Jappelli –. Infatti, la Vqr non fornisce la posizione relativa di un dipartimento a livello nazionale, ma solo il posizionamento dei docenti di un dipartimento che afferiscono a una particolare area di ricerca nei confronti dei docenti della stessa area di altri dipartimenti. Non è poi chiarito quale indicatore della Vqr si intende utilizzare: quello relativo alla qualità media dei dipartimenti? Al miglioramento rispetto alle posizioni della valutazione precedente? Alla consistenza dei progetti di ricerca? O tutti?».
Cercare di mettere aree di studio diverse su uno stesso piano per poter fare un’unica classifica è un’operazione che rischia di penalizzare o favorire qualcuno per cause estranee agli effettivi meriti in campo accademico. Inoltre, fa notare Jappelli, si potrebbe assistere a una riorganizzazione interna dei dipartimenti, per cercare di presentarsi in maniera vantaggiosa in fase di valutazione. Ma una scelta del genere, se gioverebbe alla classifica e quindi ai finanziamenti, non rischia di sacrificare qualcosa in termini di didattica? Sarebbe uno spostamento di priorità di non poco conto.
L’altra questione controversa, evidenziata dalle economiste Maria De Paola e Valeria Pupo, riguarda la reale possibilità che nel corso degli anni ci sia un certo dinamismo all’interno della classifica, e che la prospettiva di ricevere un ulteriore finanziamento spinga le realtà più piccole o meno produttive ad attrezzarsi per scalare posizioni: «Un sistema di questo tipo produce risultati efficienti solo se i partecipanti sono fin dall’inizio abbastanza simili. In questo caso, tutti saranno incentivati a impegnarsi e a cercare di ottenere il premio la volta successiva. Se, però, i concorrenti sono diversi tra loro, il sistema non è in grado di fornire incentivi adeguati. Infatti, chi sta in cima alla graduatoria non ha motivo di impegnarsi troppo: è già abbastanza sicuro di vincere. Chi sta in una posizione di svantaggio, consapevole di non poter vincere, non ha alcun incentivo a impegnarsi per migliorare la propria posizione. Il risultato finale sarà quello che a impegnarsi saranno in pochi e il risultato complessivo inferiore a quello che si potrebbe ottenere con sistemi incentivanti alternativi quali, per esempio, quelli che legano in maniera proporzionale le risorse ai risultati raggiunti».
La proposta che accomuna entrambi gli articoli è proprio quest’ultima. Data l’impossibilità di individuare criteri realmente oggettivi e infallibili per fare la valutazione, sarebbe bene, almeno in una prima fase, prevedere un periodo in cui i fondi siano assegnati in maniera progressiva: «Si potrebbe pensare a due premi: uno più consistente e uno di entità minore da assegnare ai dipartimenti che si collocano in una fascia intermedia. In un sistema di questo genere chi sta nel secondo gruppo potrà aspirare nel corso del tempo a raggiungere le posizioni più alte e chi sta più in basso potrà pensare di accedere al gruppo immediatamente superiore». La meritocrazia è talvolta un concetto molto lontano dall’idea di oggettività in cui lo si vuole a tutti i costi far entrare. Abbiamo già affrontato un breve excursus storico sui primi tentativi di valutare il merito. Oggi gli algoritmi si sono fatti più complicati e gli slogan più raffinati, ma alla fine la meritocrazia, come direbbe De La Rochefoucauld, è come i fantasmi: tutti ne parlano ma nessuno l’ha vista.
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