Le parole “merito” e “meritocrazia” hanno guadagnato sempre maggiore popolarità nella retorica politica. Ma il secondo dei due termini aveva in origine un’accezione negativa, come rivela l’interessante articolo di Alessandro Leogrande, ripreso da Minima&Moralia e apparso inizialmente sull’ormai defunto Pagina99. Anche su ZeroNegativo ne avevamo parlato in un precedente articolo.
Nel lessico della nuova stagione renziana, le parole “merito” e “meritocrazia” sembrano aver scalzato “riforme” e “riformismo” quale onnipresente architrave di ogni discorso politico. Le prime sembrano aver inglobato e sostituite le seconde, tanto che oggi non c’è riforma “auspicabile” che non preveda la sostituzione dei “vecchi” con i “giovani”, e l’avanzamento tra i giovani di “quelli veramente bravi”.
Ma come si calcola il merito? E chi stabilisce la scala di valori? E, poi, una volta stabilita questa, chi farà da misuratore? E chi controllerà i misuratori? E chi controllerà i controllori dei misuratori?
Basta liberare il campo dai tic linguistici, gli slogan, le frasi ad effetto, per rendersi conto di come la nuova retorica sul merito, quale unica arma per sgretolare un’Italia asfittica e gerontocratica, poggi in realtà su un grande vuoto. E su un novero di questioni irrisolte.
Il termine “meritocrazia” fu coniato dal sociologo ed economista inglese Michael Young in un vecchio libro del 1958, oggi riproposto dalle Edizioni di comunità: L’avvento della meritocrazia. In una sorta di saggio romanzato distopico Young (importante e dimenticato intellettuale laburista del dopoguerra) immaginò una Gran Bretagna del 2033 interamente retta da criteri meritocratici. O meglio: un paese in cui l’avvento della meritocrazia avrebbe prodotto un regime illiberale governato da una nuova upper class.
L’io narrante del libro è uno “bravo” del 2033 che difende il sistema in cui è nato. Nella ricostruzione distopica di Young (che, come detto, scrive nel 1958) è la trasformazione della scuola “negli anni ottanta del secolo scorso” ad aver gettato le basi del nuovo corso. Il merito viene stabilito da test di intelligenza sempre più raffinati e applicati a una età sempre più bassa: non solo ai bambini, anche ai feti. Per i migliori, poi, ci saranno scuole diverse, separate da tutti gli altri.
Tuttavia sono due i tarli della società meritocratica del futuro. Il primo è che l’unica l’intelligenza ammessa è quella funzionale. Ogni forma di intelligenza critica o autocritica è bandita, tanto che il merito diventa una forma di autismo. Il secondo è che anche una società siffatta non è esente da forme di cooptazione e nepotismo. Pure per i geni i figli so‘ piezz‘e core da infilare nei posti chiave – anche quando sono un po’ meno geni dei padri.
En passant Young prevede la crisi della sinistra e del sindacato, il “vecchiume” della parola uguaglianza e l’esautorarsi del parlamento. Tuttavia, nelle pagine finali del libro, la società da lui prefigurata implode perché i nuovi esclusi non ci stanno e danno vita a una rivolta “populista”.
L’avvento della meritocrazia di Young è uno di quei libri che hanno avuto una strana sorte. Benché il termine sia adottato negativamente, il libro è diventato un manifesto per i più convinti assertori della meritocrazia, da Abravanel in giù. E allora viene da pensare che ci sia stato un cortocircuito nello stesso utilizzo del termine. Non si tratta solo di rivestire positivamente ciò che fino a ieri poggiava su parecchie ambiguità.
Oggi chi invoca la meritocrazia come la panacea contro ogni male italico non vuole certo creare una nuova upper class illiberale. Piuttosto fa proprio uno dei tanti tic della neolingua anti-politica e anti-casta. Chiunque pronunci la frase “devono andare avanti solo i bravi”, non sarà mai disposto ad ammettere di non essere fra questi, né che suo figlio non sia il nuovo Messi o il nuovo Mozart. Forse il segno dei tempi, sessant’anni dopo Young, è che l’abuso delle parole “merito” e “meritocrazia” ha incontrato un altro avvento. Quello individuato da Cristopher Lasch: il narcisismo di massa.