(Dopo l’acclamato Fahreneit 9/11, il regista Michael Moore ha perso parte della sua notorietà in Europa. Tuttavia il suo ultimo documentario, Where to invade next (Dove invadere dopo, traduzione abbastanza inefficace), meriterebbe maggiore attenzione perché si concentra sui sistemi scolastici, carcerari, di welfare, ecc., di alcuni Paesi europei (si parla anche dell’Italia, ma non ce ne occuperemo qui). Partiamo subito da quello che secondo noi è il punto debole del film (almeno se visto da questa sponda dell’Atlantico), ossia il suo rivolgersi prettamente (e in maniera un po’ paternalistica) al pubblico americano, utilizzando i casi europei per dimostrare una tesi: le idee migliori che caratterizzano i sistemi politici e sociali europei hanno avuto origine negli Stati Uniti. Questi ultimi avrebbero come “perso la bussola”, per ritrovarsi ora a essere una società in cui il sistema sanitario è prevalentemente privato, le disuguaglianze su base etnica sono molto pronunciate, il sistema carcerario è decisamente punitivo e poco orientato alla riabilitazione, l’istruzione è sostanzialmente privata e gli studenti sono costretti a contrarre grossi debiti con gli Stati per pagarsi gli studi, e così via. Detto questo, il pretesto di partenza è comunque molto divertente ed efficace.
Moore salpa dalle coste statunitensi per “invadere” il vecchio continente, in cerca di buone idee da “conquistare” e importare negli Stati Uniti, visto che negli ultimi decenni, come spiega lui stesso all’inizio del film, le varie amministrazioni e i sistemi di intelligence americani non ne hanno imbroccata una per risolvere i problemi del Paese.
Partiamo innanzitutto dal sistema carcerario norvegese, dal quale non solo gli Usa avrebbero da imparare. Sulle pagine di ZeroNegativo ci siamo soffermati spesso sul problema del sovraffollamento degli istituti di detenzione italiani ma, anche risolvendo quello (e siamo ancora piuttosto lontani), resta il fatto che si dovrebbe puntare a un vero e proprio superamento del sistema carcerario così come lo conosciamo. Le carceri norvegesi, sotto lo sguardo sbigottito di Moore, sono semplicemente delle case, di cui i detenuti sono gli unici ad avere la chiave. Ogni giorno possono dedicarsi a varie attività e lavorare assieme, studiare, ma anche uscire a farsi una passeggiata o un giro in bici (entro un certo perimetro, ovviamente). A sorvegliarli, a distanza, ci sono quattro agenti, non armati. Tutto qua. Il fatto è che, a pensarci bene, il fatto di togliere dalla società una persona e relegarla in un territorio isolato, dove può stare a contatto solo con altri detenuti, è già una privazione di libertà notevole. Tutto ciò che vi si aggiunge (la vita in una cella di pochi metri quadrati, magari sovraffollata, il rapporto di potere con le guardie, la mancanza di attività a cui dedicarsi, il cibo di scarsa qualità, le condizioni di igiene precarie), sono ulteriori vessazioni che non aiutano certo il detenuto a ripensare la propria vita per inserirsi nuovamente nella società, visto che è quest’ultima a infliggergli una pena ingiusta. Anche nelle carceri di massima sicurezza norvegesi gli agenti sono disarmati e i detenuti hanno le chiavi della propria cella (dotata di bagno privato) da cui possono uscire liberamente per andare, ad esempio, in biblioteca. Capiamo lo stupore di Michael Moore, ma anche in Italia avremmo molto da imparare e da sperimentare.
Spostandosi in Islanda, si scopre una società in cui le donne hanno raggiunto una piena parità di diritti rispetto agli uomini. Tutto ebbe inizio con uno sciopero generale, iniziato il 24 ottobre 1975, con cui le islandesi dimostrarono a tutto il Paese cosa volesse dire togliere all’improvviso il loro apporto dal sistema economico e sociale: il Paese si paralizzò. Fu l’inizio di una serie di conquiste che portarono l’Islanda, cinque anni dopo, ad avere uno dei primi capi di Stato donna eletti dal popolo. Oggi in Islanda in qualsiasi consiglio d’amministrazione vige la regola del rapporto 60/40 tra uomini e donne. Invece di inseguire una parità numerica che rischia di tradire i meriti reali, si cerca di raggiungere un rapporto che non crei mai un rapporto di minoranza né in un senso né nell’altro (se a un certo punto le donne dovessero andare oltre il 60 per cento, la correzione si applicherebbe in favore degli uomini, per portarli almeno al 40 per cento). Non è solo una questione di numeri, ma anche di cultura. Nonostante l’economia del Paese sia collassata con la crisi iniziata nel 2008, è interessante notare come l’unica banca a non fallire sia stata una banca completamente controllata da donne, dove vige il principio per cui “se non lo capiamo, non lo compriamo”. Un approccio decisamente diverso dalla “testosteronica” spregiudicatezza degli speculatori di borsa, abituati a correre grandi rischi in vista di grandi guadagni. Tra l’altro, l’Islanda è stato uno dei pochi Paesi ad aver processato e messo in carcere i banchieri responsabili del dissesto finanziario degli anni scorsi.
Il rischio di semplificare eccessivamente il messaggio è alto, ma l’idea di guardare ciò che accade altrove, studiarlo, e poi provare ad applicarlo (con correzioni) nella propria realtà è un esercizio che dovrebbe essere fatto più spesso. Al di là della possibilità di “trapiantare” un’idea da uno Stato all’altro, ciò che bisogna fare propria è la consapevolezza che è possibile cambiare le cose. Le conquiste di cui si parla nel documentario (noi ne abbiamo scelte due, ma ce ne sono tante altre) sono talvolta recenti. Il fatto che qualcuno abbia voluto e creduto in una svolta ha creato le condizioni perché questa avvenisse. È soprattutto su questo che, al di là delle semplificazioni di Michael Moore, avremmo tanto da imparare.
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