Nella sua intensa attività di scrittura e riflessione sulla scrittura, Michela Murgia si è molto occupata di come i giornali italiani raccontano le violenze contro le donne e i femminicidi. In un articolo scritto per il Post e pubblicato dopo la sua morte, avvenuta il 10 agosto, la scrittrice racconta la propria esperienza in una redazione.
In Italia […] la resistenza verso un adeguamento delle parole alla realtà è fortissima, per varie ragioni che riguardano più il giornalismo professionista che la sensibilità di chi i giornali li legge, che invece è alta, almeno secondo la mia esperienza. Attraverso una rassegna domenicale su Instagram che evidenziava il sessismo e altre discriminazioni nelle parole scelte per dare le notizie, per cinquanta settimane ho cercato di promuovere una maggiore sensibilità di sguardo in chi le notizie le leggeva. La risposta di chi seguiva il mio profilo è stata molto forte: benché rudimentale, il percorso di osservazione di circa un anno fatto sui titoli e i contenuti di un gran numero di testate ha avuto come conseguenza un aumento della consapevolezza della quantità di sessismo involontario di cui il linguaggio dell’informazione italiana è intriso.
Parallelamente a quel lavoro militante, sono stata anche consulente, con uno scopo analogo, dentro uno dei maggiori quotidiani, però in quel caso il mio lavoro, che aveva come destinatari i giornalisti e le giornaliste, non solo non ha avuto lo stesso successo, ma ha sollevato una resistenza tale da rendere di fatto controproducente la mia stessa funzione. L’episodio che mi ha fatto comprendere l’inutilità dei tentativi di riformare da dentro i giornali il linguaggio discriminatorio è stata la reazione di completa chiusura dell’intera redazione alla proposta di introduzione di uno schema nel dare le notizie dei femminicidi. Lo schema, poi divenuto pubblico come vademecum, chiedeva il minimo sindacale nella responsabilità delle parole.
In Italia è uso comune nei giornali, con pochissime eccezioni, assumere il punto di vista dell’assassino e proporre come spiegazione del delitto quella che ne dà lui, che di solito racconta il proprio gesto non come una decisione autonoma, ma come reazione a qualcosa di provocatorio fatto dalla vittima, cosa che non avviene per nessun altro reato. Nessun giornale intervista il ladro per chiedergli perché ha svaligiato una casa. In caso di morte di una donna per mano del partner invece i titoli sono questi: «La uccide con trentasei coltellate, lei aveva un altro», «La strangola davanti ai figli, lei voleva lasciarlo».
Analogo è il collegamento giustificativo tra l’omicidio e qualche patologia o situazione di degrado sociale, in cui l’assassino diventa tale agli occhi del lettore perché ubriaco, depresso, indebitato o disoccupato. A corollario di questo quadro giustificativo, dove chi legge viene spinto a empatizzare con il colpevole mentre la vittima viene spersonalizzata o infantilizzata con l’uso del solo nome proprio, c’è l’abitudine di intervistare amici e parenti dell’omicida, che risulta così quasi sempre una persona tranquilla da cui nessuno si aspettava il gesto efferato.
Il peggiore dei titoli su un femminicidio è però quello che mette in relazione amore e morte, chiamando in causa un annebbiamento da gelosia, un raptus o una follia amorosa che conferma in chi legge l’associazione automatica tra sentimento e possesso.
(Foto di Michela D’Amico per International Journalism Festival)
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